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Dopo aver parlato in generale della storia, della provenienza e degli obiettivi dei festival teatrali penso sia utile andare un po’ più nello specifico e vedere quanti – e quali – modelli di festival teatrale vengono organizzati. Questi modelli sono attualmente usati nell’organizzazione dei festival europei, e non solo. Quello che cambia sono sì i contenuti, ma anche i modi e i tempi di svolgimento.
Al fine di avere un quadro più ampio della situazione illustrerò di seguito queste varie tipologie. In particolare, citerò le tipologie di cui fanno parte i festival di cui mi occuperò nel corso dei prossimi mesi.

Il primo esempio è quello delle rassegne tematiche.

Queste sono legate strettamente a un ambito o a un singolo autore. Questi festival si distinguono sia dalle “normali” stagioni teatrali sia dalle altre modalità di festival: le rassegne tematiche infatti si sviluppano lungo un arco temporale abbastanza lungo e sono strettamente legate al luogo dove vengono organizzate. In Italia l’esempio più conosciuto è l’INDA di Siracusa.

A livello europeo l’esempio più conosciuto è il Festival wagneriano di Bayreuth – di cui ci occuperemo.

La particolarità di questi festival, inoltre, è quella di avere la funzione di valorizzare il luogo – spesso già conosciuto o comunque di rilevanza culturale – in cui hanno luogo.

L’INDA (Istituto Nazionale Dramma Antico) si svolge infatti al teatro greco di Siracusa, mentre il Festival di Bayreuth ha luogo nel teatro costruito da Wagner, primo esempio di teatro pienamente moderno.

Un secondo esempio è rappresentato dai cosiddetti festival intensivi, che a differenza dei primi hanno uno svolgimento più ridotto nel tempo, vedono la convivenza di più generi che spesso interagiscono e si mescolano tra loro, spesso vedono la presenza – sul luogo e nei tempi del festival – di iniziative culturali che esulano dal campo prettamente teatrale. Anche questi festival, tuttavia, vengono organizzati con un progetto culturale di fondo. La finalità di questi festival è quella di “creare un’atmosfera” (M. Gallina, Ri-Organizzare teatro) e facilitare il dialogo tra gruppi teatrali che praticano diversi generi e discipline. La parola chiave di questi festival è multidisciplinarità, e solitamente la programmazione prevede più spettacoli al giorno organizzati in spazi diversi della città.

Festival di questo tipo sono il Festival di Santarcangelo e il Festival di Spoleto.

Una terza tipologia sono i festival metropolitani.
Questi si sviluppano nelle grandi capitali europee a partire dagli anni ’80 e hanno la fondamentale funzione di far convergere gruppi teatrali da quasi ogni parte del mondo e promuovere il dialogo e lo scambio fra questi. Di questi festival fa parte anche una componente più “accademica”, che prevede convegni, incontri e momenti di scambio organizzati.
Un esempio di festival metropolitano in Italia è il Romaeuropa, programmato di solito durante il mese di settembre.

L’ultimo esempio che citerò è quello del Fringe.
Questo festival è quasi sempre strettamente legato a una particolare città. La programmazione prevede la compresenza di spettacoli fra i più disparati e solitamente vede convivere teatro di strada e spettacoli più “classici”. Il fringe per eccellenza è sicuramente quello che ha luogo a Edimburgo, programmato ogni anno ad agosto. In questa occasione tutta la città, le sue attività e in generale la sua via viene influenzata dalla presenza del festival, degli artisti e del pubblico proveniente da ogni parte d’Europa e non solo.

Durante l’estate presenterò una sorta di “rassegna” di festival teatrali che si svolgono su suolo nazionale ed europeo. In particolare, i festival di cui scriverò sono, in ordine sparso, il Festival Trasparenze di Modena, il Fringe di Edimburgo, il già citato Festival wagneriano di Bayreuth, il Festival di Spoleto, l’INDA, il Festival d’Avignon, il Festival di Santarcangelo, il VIE Festival di Modena, il Romaeuropa Festival, e qualche altro ancora.
Vari e diversificati tipi di festival permettono di creare una programmazione che vada incontro a ogni tipo di pubblico, sempre mantenendo quell’autenticità tipica del teatro, e in particolare dei festival.

Credo che festival di teatro, oltre a spettacoli e convivenza, voglia dire anche tradizione: organizzare un festival teatrale significa tornare alle origini, a quando il teatro era il mezzo privilegiato di comunicazione sociale, di incontro e di scambio in seno alla comunità. Una tradizione che ha la possibilità – anche se solo per un breve periodo – di farci tornare indietro nel tempo, di farci rivivere momenti ormai perduti in cui una città e una comunità intere vivevano circondate da spettacoli, esibizioni e arte.

 

 

[Nota: per le informazioni relative alle tipologie di festival: M. Gallina, Ri-Organizzare teatro]

Quando si parla di festival, la prima cosa che viene alla mente sono i grandi festival di cinema e di musica. Ma esistono festival anche a teatro. Forse, in certi casi, meno conosciuti, ma altrettanto importanti.

Probabilmente abbiamo tutti sentito parlare o conosciuto direttamente il Festival d’Avignone, il Fringe di Edimburgo o il più vicino Festival di Santarcangelo. Oltre a questi, tuttavia, esistono una miriade di festival teatrali che ravvivano le estati e gli autunni in Italia ed Europa.

Per questo motivo nei seguenti mesi presenterò questi vari festival, i più famosi e i meno conosciuti, alcuni terminati, altri in corso o quelli non ancora iniziati, per cercare di dare una panoramica il più possibile completa di questo fenomeno, a mio parere molto importante e da valorizzare.

Ma per prima cosa penso sia importante capire da dove nasce questa tradizione, che a prima impressione può sembrare recente, ma che in realtà non lo è per nulla.

Si può affermare che la forma del festival si origina con il teatro stesso. (M. Gallina, Ri-Organizzare Teatro) A ben pensarci, infatti, sia nella Grecia Antica, dove il teatro era “affare di Stato”, sia a Roma, dove nascono le prime grandi feste pubbliche, il teatro era organizzato come una sorta di festival primordiale, che si sviluppava su più giornate, su più luoghi specifici, che vedeva la partecipazione di tutta la popolazione e che prevedeva la vittoria di uno – o più – dei partecipanti.

La tradizione poi continua nel Medioevo, quando le uniche rappresentazioni teatrali permesse erano i Misteri religiosi, che si svolgevano sul sagrato delle chiese, nei periodi di festa. Anche in questo caso, sebbene le storie messe in scena fossero limitate a brani tratti dalle Sacre Scritture, alcune caratteristiche della forma del festival sopravvivono: i Misteri – soprattutto i più importanti – erano rappresentazioni che si sviluppavano su varie piazze della città e vedevano la partecipazione più o meno diretta dei cittadini.

La tradizione si perpetua e arriva fino all’epoca barocca, sebbene con caratteristiche nettamente diverse rispetto al periodo precedente.

Ma se vogliamo trovare un parente più prossimo degli attuali festival teatrali dobbiamo spostarci fino al 1872, anno in cui Wagner dà vita al primo Festival nella città di Bayreuth, nel sud della Germania. Il modello di Bayreuth è valido ancora oggi: l’intento di Wagner era quello di creare un legame “totale” col pubblico, un rapporto che non dipendesse dalle regole del mercato teatrale o dalle stagioni delle grandi capitali europee. (M. Gallina, Ri-Organizzare Teatro)

Se ci pensiamo, è quello che avviene tutt’ora.

Oggi, ancora più che a fine Ottocento, nell’organizzazione di un festival viene privilegiato l’aspetto del luogo: è fondamentale che il festival “abiti” la città che lo ospita, che le due entità diventino una, e in certi casi il fiorire dell’una dipende dall’altro. Un esempio per tutti è la città di Avignone, famosa e conosciuta nel mondo proprio grazie al suo Festival, istituito nel 1947 da Jean Vilar.

Un altro aspetto importante che riguarda la nascita e la diffusione dei festival oggi è relativo alla produzione di spettacoli: spesso i festival vengono usati dalle compagnie – anche le più giovani – per “lanciare” un nuovo prodotto, o per testarlo prima di distribuirlo nel circuito “ufficiale” delle stagioni teatrali. Quest’ ultima caratteristica permette ai festival di non essere soltanto un’asettica vetrina, ma un luogo di scambio, di confronto, tra realtà spesso diverse tra loro. (M. Gallina, Ri-Organizzare Teatro)

Il motivo principale per cui credo sia necessario e importante valorizzare i festival è perché essi permettono a operatori e spettatori di vivere il teatro in modo più completo e totale di quanto non permetta una qualsiasi stagione teatrale. La compresenza spaziale, la durata prolungata, la convivenza di attori, tecnici e pubblico permette di comprendere meglio tutto ciò che il teatro comporta, e non solo dal punto di vista degli spettacoli e della resa finale che viene normalmente presentata al pubblico all’interno di un teatro.

Il MIBACT descrive i festival di teatro come “una pluralità di spettacoli, nell’ambito di un coerente progetto culturale, effettuato in un arco di tempo limitato e in un medesimo luogo”.

Nonostante la natura asfittica che appartiene a ogni definizione, credo che questa renda bene l’idea di una convivenza insita nel teatro, che tuttavia è nei festival che si palesa al meglio.

Sfogliando un libro di letteratura sarà capitato a tutti di essersi scontrati con l’espressione “scrittore engagé”. Questa definizione – che si applica a quei personaggi, perlopiù letterati, che decidono di investire sé stessi in questioni di tipo politico e sociale – può essere usata in riferimento a due grandi personaggi di cultura.
Parlo di Émile Zola e Pier Paolo Pasolini. Ritengo che il loro essere engagé derivi non tanto dal lavoro di romanzieri, quanto da quello di giornalisti.

Zola è conosciuto per il suo celeberrimo “J’accuse”, articolo uscito nel 1898 sul giornale L’Aurore che ha il merito di aver smascherato un complotto antisemita ordito ai danni di un capitano, Alfred Dreyfus, accusato di spionaggio. Grazie a questo articolo l’intero atto di accusa viene riesaminato e – sebbene dopo anni – si giunge ad una sorta di chiarezza. E questo è merito, principalmente, del romanziere francese.

Parlando di Pasolini, invece, la definizione si riferisce beninteso al giornalismo “corsaro” e agli articoli di protesta e lotta ideologica pubblicati dal poeta e autore. Un esempio per tutti, il famoso “Io so”.

Penso tuttavia che questa definizione – sempre applicata a queste due grandi personalità – possa riguardare non soltanto il lavoro di letterati, ma anche quello di uomini di teatro. Mi riferisco alla nascita del Naturalismo a teatro, per quanto riguarda Zola e al “nuovo” teatro teorizzato –  e tentato – da Pasolini. Entrambi questi modelli si inseriscono in un rapporto di non continuità rispetto alle tradizioni, rispettivamente, del Romanticismo e del teatro italiano del secondo dopoguerra.

Il Naturalismo di Zola

Émile Zola è a ragione considerato uno dei padri morali del filone del Naturalismo francese. Egli tuttavia non solo divenne uno dei maggiori esponenti del gruppo composto – fra gli altri – da Flaubert e Balzac, ma portò questa filosofia estetica anche a teatro.

Portare il Naturalismo a teatro in quegli anni significava prima di tutto porsi in aperto contrasto con lo stile del Romanticismo, che preferiva la grandeur delle rappresentazioni a una rigorosa rappresentazione dei fatti, senza fronzoli e senza inutili abbellimenti. Per fare questo, il Naturalismo guarda all’altra grande tradizione del passato: il Classicismo. In questo modo il grande fondatore del teatro naturalista recupera le unità aristoteliche di tempo, spazio e azione, ormai abbandonate in epoca romantica.

Zola, tuttavia, si trova in aperto contrasto con un altro elemento del teatro classico: la scenografia. Mentre le scenografie del teatro classico erano spoglie, il Naturalismo a teatro si caratterizza per scenografie realistiche e reali, esatte nella loro aderenza alle descrizioni presenti nei romanzi. Zola immaginava infatti personaggi che “se vanno a letto, si vestono, mangiano, si scaldano [hanno bisogno] di un arredamento completo”. (Alonge, Perrelli, Storia del teatro e dello spettacolo)

La formula cui si ispira il movimento naturalista diventa quindi “faire vrai, faire simple, faire grand”. Un teatro che più di ogni altra cosa vuole mostrare la vita vera, così com’è; un teatro che non contempla giochi meta-teatrali ma che vuole mostrare allo spettatore la realtà raccontata senza mediazioni di sorta. Lo spettatore non si trova ad essere coinvolto nelle vicende raccontate, ma la storia semplicemente si svolge davanti ai suoi occhi.

Ritengo di poter definire il Naturalismo a teatro come una sorta di pensiero “engagé” in quanto il suo obiettivo è sì quello di un cambiamento a livello formale, ma un cambiamento formale che porta a un cambiamento percettivo: una nuova forma per parlare di una nuova società e delle sue nuove problematiche.

Ritenendo il linguaggio romantico ormai obsoleto nella nuova società, Zola si erge a difesa di un nuovo sistema comunicativo che troverà riscontri in tutta Europa, influenzando ad esempio il lavoro di Strindberg e ponendosi – a detta di Martin Esslin – come “la prima avanguardia moderna” e aprendo le porte a quelle che saranno i grandi movimenti avanguardisti della prima parte del Novecento. (Alonge, Perrelli, Storia del teatro e dello spettacolo)

Il teatro di Pasolini

“Il teatro non lo seguo molto. È un fatto che ogni volta che vado a teatro ne esco arrabbiatissimo e quindi ho smesso di prendermi queste inutili rabbie”. (Pier Paolo Pasolini)

Eclettico e importante uomo di cultura, Pasolini nel corso della sua carriera è stato in grado di toccare tutti i generi letterari e non solo: dalla poesia al giornalismo, dai romanzi al cinema per poi arrivare al teatro Pasolini ha avuto la capacità di influire su tutti questi generi, facendoli suoi, dandogli un’interpretazione del tutto particolare e personale che gli ha permesso di essere preso a paradigma.

Il rapporto di Pasolini con il teatro è particolare e controverso: egli si avvicina alla scrittura teatrale nel 1965, a seguito di un problema di salute che lo tiene a letto per diverso tempo. È durante il periodo della convalescenza che Pasolini pensa, concepisce e scrive le sei tragedie che  compongono il suo corpus. Queste sei tragedie sono: Calderón, Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia, Bestia da stile. A queste viene poi accorpata una settima, Teorema.

In un’intervista a Corrado Augias, Pasolini parla del teatro non tanto come messa in scena, ma come parola. Quello che è importante – secondo Pasolini – del teatro è la parola scritta. Ponendosi in questo modo in aperto contrasto con tutto quello che il teatro era stato fino a quel momento, Pasolini apre un’ottica letteraria del medium teatrale.

Questo suo interessarsi principalmente alla parola, deriva in primis da un’aspra critica che l’autore rivolge alla lingua italiana, che ritiene inadeguata a pronunciare le parole del teatro (Augias, Intervista a Pier Paolo Pasolini). Pasolini auspicava la nascita di una lingua parlata che fosse comune, non dialettale, accessibile a tutti gli italiani, quindi priva di inflessioni dialettali o regionalismi. Sempre in questa intervista, Pasolini afferma che:

“Nel momento in cui amo il teatro io amo la parola nel teatro, in questo io sono scrittore”.

Questo attaccamento di Pasolini alla parola, alla lingua orale; il suo considerare il teatro “solo una particolare forma di letteratura” (Augias, Intervista a Pier Paolo Pasolini) rese molto difficile per lo scrittore mettere in scena i suoi drammi. I pochi tentativi furono veri e propri fiaschi, ma ciò non impedì a Pasolini di continuare a lavorare instancabilmente alle tragedie, fino alla morte.

Tuttavia l’essere engagé di Pasolini a teatro non si riduce alla critica della lingua. Engagé sono anche i temi che lui tratta nelle tragedie. Oltre a temi personali che spaziano dall’infanzia al rapporto con i genitori, Pasolini tratta anche di temi sociali. In opere come Calderón e Pilade l’autore tratta i temi della (mancata) rivolta, della situazione dell’uomo contemporaneo e dei rapporti interpersonali. Il tutto chiaramente in ottica comunista.

In Calderón, Pasolini riprende “La vita è sogno” di Calderón de la Barca: a risvegliarsi, però, è Rosaura, e le “diverse condizioni” che si trova a vivere non sono tanto un alternarsi di prigionia e libertà ma una sorta di “scalata sociale”: da componente di una ricca famiglia spagnola, a povera popolana, a madre di una famiglia borghese. A ogni risveglio Rosaura non si riconosce nella realtà in cui si trova precipitata, non ricorda la sua vita, non ricorda i suoi famigliari e non riconosce la sua situazione. Solo al quarto e ultimo risveglio, in un lager, afferma di ricordare tutto e di aver finalmente trovato la sua realtà. Forte critica alla ‘borghesizzazione’ della società, quest’opera di Pasolini è la perfetta portatrice del suo ideale comunista della società.

In Pilade, invece, il tema affrontato è quello della rivolta. Ponendosi come ideale sequel dell’Orestea di Eschilo, Pilade narra le vicende successive al ritorno in patria di Oreste, che si ritrova ad occupare il ruolo che era stato di Egisto. Ciò che salta all’occhio dai primi versi è il fatto che la tragedia si articola su due piani coesistenti e intrecciati: alla realtà dell’Orestea si mescola la realtà dell’Italia del secondo dopoguerra. Sono infatti presenti molti riferimenti ad avvenimenti successivi alla deposizione del regime fascista lungo tutte le pagine dell’opera.  In questo sequel, Pilade, il “personaggio muto” dell’Orestea, inizia improvvisamente a parlare e organizza, in antitesi alle lotte per il potere tra Oreste ed Elettra – che restano entro le mura della città – una sorta di resistenza, sui monti intorno alla città. Al momento decisivo, tuttavia, Pilade comprende che la guerra non vale la pena. La tragedia si chiude con un dialogo tra Pilade e Atena sulla condizione umana in rapporto alla natura e alla ragione.

Anche per Pasolini come per Zola l‘essere engagé non si limita a una forma, ma si estende a un’idea. L’essere “engagé” in ambito teatrale di questi due grandi personaggi e letterati europei significa, a mio parere, non tanto rendere a cuore una particolare causa sociale, come poteva essere per il giornalismo. Engagé si riferisce alla lotta per un cambiamento radicale nella visione del mondo. Un cambiamento che può e deve essere mediato dal teatro.

Parlare di Naturalismo non significa solo contrapporsi alla tradizione del Romanticismo, ma anche e soprattutto cercare un nuovo metodo per comunicare le nuove problematiche proprie del presente che ci si trova a vivere. Allo stesso modo, il teatro di Pasolini non vuole solo rompere con la tradizione, ma crearne una nuova, fare in modo che il teatro ritorni ad essere lo strumento fondamentale di comunicazione che era al tempo della sua fondazione. Certo, gli esiti sono stati molto diversi. Al successo del Naturalismo corrisponde un insuccesso – previsto – di Pasolini.

Penso tuttavia che i grandi meriti di questi due uomini di teatro siano stati quelli di aprire un dibattito nella società loro contemporanea e di innescare un cambiamento che, sia in modo palese nel caso del Naturalismo, sia in modo meno manifesto nel caso di Pasolini, sia arrivato fino a oggi e che continui ancora a influenzare le forme del teatro.

“Un enigma in un labirinto. In realtà siamo creature in un labirinto. Per quanto ancora possiamo continuare a vagare…
Il teatro somiglia a un labirinto proprio perché somiglia alla vita”.
(J.B.)

Il Living Theatre nasce nel 1947 ad opera dei coniugi americani Julian Beck e Judith Malina. Questi, all’epoca giovani che si stavano avvicinando al teatro e sognavano il fulgore di Broadway, in seguito ad alcune delusioni sul piano professionale decidono di abbandonare i loro sogni di gloria per dedicarsi a un teatro che fosse più inscritto nella tradizione della neoavanguardia americana inaugurata da John Cage e portata avanti da Allan Kaprow.

Il lavoro “stabile” del Living inizia qualche anno dopo, nel 1951. In questo primo periodo statunitense il Living mette in scena i suoi primi grandi successi.

Il primo è The Connection. In questo spettacolo, che racconta di un gruppo di drogati in attesa del loro spacciatore, non ci sono solo attori: quelli che stanno sulla scena sono veri drogati, trovati per le strade di New York, che non fanno altro che rappresentare la loro vera vita, alternando pezzi recitati a pezzi improvvisati.

Il secondo è invece The Brig. Se possibile ancora più forte del primo, questo spettacolo si pone come una critica sociale alle condizioni dei detenuti. Per rendere più veritiero e vissuto lo spettacolo, gli attori della compagnia sia durante le prove che in sede di spettacolo hanno acconsentito ad essere realmente sottomessi dal loro carceriere, in questo caso Judith Malina. (A. Greene, A CourtainUp Review)

L’impatto di questo spettacolo sull’opinione pubblica fu molto forte, e fu fondamentale per la diffusione del pensiero pacifista, anarchico e contrario al sistema delle carceri del Living.

In questi anni il peso politico dei coniugi Beck diventa, per gli Stati Uniti dell’epoca, troppo gravoso e dopo vari tentativi da parte delle forze dell’ordine di sbarazzarsi del pesante fardello, in seguito ad un processo per evasione fiscale il gruppo del Living decide di abbandonare lo studio newyorkese per dedicarsi alla vita della compagnia di giro nel vecchio continente.

Il “periodo europeo” del Living va dal 1964 al 1970. È anche il periodo in cui vedono la luce gli spettacoli più maturi del gruppo, gli spettacoli più influenti che da allora hanno caratterizzato e identificato il gruppo teatrale newyorchese nel mondo. Appena arrivati in Europa, grazie alla loro filosofia prettamente anarchica, il Living si inserisce perfettamente in quel processo che porterà, quattro anni dopo, allo scoppio delle rivolte del Sessantotto.

Alcuni degli spettacoli più importanti portati dal Living in Europa sono stati Mysteries and smaller pieces, debuttato a Parigi nel 1964; Frankenstein, debuttato nel 1965 al Festival del teatro di Venezia; Antigone, in una visione che guarda a entrambi Sofocle e Brecht, che esordisce nel 1967 in Germania. Ultimo, ma sicuramente non meno importante, nasce in Europa anche lo spettacolo per antonomasia del Living Theatre, Paradise now (1967-1968), andato in scena per la prima volta al Festival di Avignone del 1968. Paradise now, oltre al punto più alto del lavoro del Living, ne rappresenta anche la fine: dopo l’ultima rappresentazione dello spettacolo, avvenuta nel 1970, il gruppo decide di sciogliersi. Da questa diaspora nascono 4 gruppi, di cui uno guidato da Julian Beck e Judith Malina, che mantiene il nome originale.

Il “nuovo” Living Theatre ritorna quindi negli Stati Uniti. Una volta rientrati, i coniugi Beck e soci partono alla volta del Brasile, all’epoca schiacciato dalla dittatura, per portare i loro spettacoli, aggirando così il divieto vigente di mettere in scena una qualsiasi opera teatrale. L’avventura brasiliana del Living non dura a lungo: Julian Beck e Judith Malina vengono infatti incarcerati e liberati solo in seguito alla sollevazione della stampa mondiale in loro favore. Una volta usciti dal carcere, i due decidono di tornare negli Stati Uniti.
In seguito alla morte prematura di Julian Beck, avvenuta nel 1985, il Living si trova a vivere una nuova fase. Dopo la chiusura della loro sede a Manhattan il Living torna in Italia, dove risiede tra il 1999 e il 2003, a Rocchetta Ligure.

Come in ogni altro luogo visitato dal Living Theatre, anche in Italia gli spettacoli di questo eclettico gruppo teatrale non sono sempre stati ben accolti. Partendo da Mysteries and smaller pieces per arrivare fino a Paradise now gli spettacoli si sono spesso dovuti scontrare con la censura e i reiterati annullamenti delle rappresentazioni – anche in corso d’opera.

Alcuni esempi sono la rappresentazione censurata di Mysteries a Trieste oppure i vari tentativi falliti di mettere in scena Paradise now a Torino e Roma. Fanno eccezione le rappresentazioni – fortunate – di Firenze.

Judith Malina, ormai ultima grande leader della compagnia, viene a mancare nel 2015.

Penso di poter affermare che il Living ha fatto la storia. Con i suoi spettacoli, le sue ideologie, i suoi mezzi espressivi la compagnia newyorchese è riuscita a inserirsi alla perfezione nel contesto storico – sociale nel quale si è trovata a operare.  Dalle guerre americane al ’68 europeo, il Living è stato in grado di lasciare un’impronta indelebile attraverso spettacoli d’avanguardia capaci di parlare al pubblico, alla critica e più in generale a tutti coloro che – anche se solo per una volta – hanno avuto a che fare con i coniugi Beck.  Ritengo che la grande forza del Living sia stata proprio questa. Oltre naturalmente alla qualità degli spettacoli, credo che quello che ha reso il Living quello che è oggi sia stata la sua capacità di comunicare – anche in momenti difficili – con tutti, oltrepassando barriere linguistiche, spaziali, culturali e ideologiche.

 

[Per la storia del Living Theatre: M. De Marinis, Il nuovo teatro 1947 – 1970]

“L’ente si propone, nel ‘Piccolo Teatro della Città di Milano’ di allestire, con carattere stabile e continuativo, spettacoli di prosa di alto livello artistico che adempiano ad una funzione culturale, educativa ed anche di svago, in vista di una sempre più vasta diffusione dello spettacolo di prosa.”

Il 14 maggio 1947 – esattamente 71 anni fa – aprivano per la rima volta le porte del Piccolo Teatro della città di Milano con lo spettacolo “L’albergo dei poveri” di Maksim Gor’kij, per la regia di Giorgio Strehler.

L’obiettivo del Piccolo, fondato da Giorgio Strehler e Paolo Grassi, è da subito quello di produrre un’innovazione in campo teatrale che sia organizzativa ma soprattutto politica: il nuovo modello stabile infatti non nasce fine a sé stesso, ma con un obiettivo che muove in direzione di una forte democratizzazione del medium teatrale.

Il pubblico di riferimento del Piccolo non sono più i borghesi a cui aveva sempre guardato il teatro “ufficiale” o il ristretto gruppo di intellettuali cui guardava l’avanguardia, ma sono gli operai, gli studenti, le “persone comuni”. Un pubblico di persone magari disabituate al teatro, che lo frequentano poco o non lo frequentano affatto, ma che rappresentano un terreno per poter costruire qualcosa di nuovo, una sorta di “pubblico di domani”. (Mimma Gallina, Ri-Organizzare teatro)

Allo stesso modo, gli spettacoli che il Piccolo vuole proporre non sono gli ultimi ritrovati delle neoavanguardie, ma spettacoli più tradizionali, sebbene di alta qualità. Gli spettacoli proposti al Piccolo sono di preferenza allestimenti nuovi e attualizzati dei pilastri della letteratura teatrale europea: da Shakespeare a Brecht, da Cechov a Goldoni.

La somma di questi due fattori porta quindi al “teatro d’arte per tutti”, un teatro artistico, in cui l’elemento di rilevanza culturale è fondamentale ma che allo stesso tempo si propone di essere accessibile alla più larga fascia possibile di pubblico. Obiettivo che riesce a raggiungere grazie a un sistema di abbonamenti e grazie ad un costo mai troppo elevato dei biglietti.

Un’altra caratteristica che contraddistingue il Piccolo è il rapporto con il territorio: fin dalla fondazione, infatti, Strehler e Grassi si rendono conto dell’importanza di instaurare un rapporto di prossimità con la città, sia per creare un rapporto più stretto con i cittadini ma anche per poter accedere alla cittadinanza, per poter reclutare quei cittadini che potenzialmente diventeranno i nuovi spettatori – o abbonati – del Piccolo. (Mimma Gallina, Ri-Organizzare teatro)

Quella portata avanti dal Piccolo è una visione del teatro come servizio offerto alla cittadinanza, che quindi deve impegnarsi a non creare barriere, ma anzi deve essere aperto potenzialmente a tutti.

Gli spettacoli del Piccolo: alcuni esempi

Come già detto, insieme al progetto di democratizzazione il Piccolo porta vanti anche un progetto artistico-culturale di prim’ordine, e questo grazie anche alle regie prima di Strehler, poi di Ronconi.

Il primo spettacolo messo in scena al Piccolo è stato “L’albergo dei poveri” dell’artista russo Gor’kij. La regia dello spettacolo fu firmata da Strehler.
Tuttavia, il testo messo in scena da Strehler, e che a tutt’oggi ha avuto il miglior riscontro di pubblico, è senza dubbio l’adattamento della commedia di Carlo Goldoni “Il servitore di due padroni”.
Messo in scena per la prima volta in chiusura della stagione 1947, lo spettacolo è presto diventato la punta di diamante della produzione del Piccolo, ed è stato spesso rappresentato anche all’estero. Il titolo, nella commedia di Strehler, diviene “Arlecchino servitore di due padroni”, così da richiamare più da vicino una delle maschere più famose della Commedia dell’Arte. La commedia, in puro stile Commedia dell’Arte, racconta le divertenti e intricate vicende del servo Arlecchino (Truffaldino nella versione goldoniana) e di una rosa di personaggi, ognuno col suo scopo – più o meno nascosto – da perseguire. Lo spettacolo non ha mai veramente abbandonato le scene del Piccolo: è stato infatti ripreso più volte nel corso delle diverse stagioni, fino ad arrivare a quella attuale: le repliche si sono infatti concluse da pochi giorni.

Un altro spettacolo che – anche grazie a numerose riprese e riadattamenti – ha avuto un ruolo importante nella carriera di Strehler è “I giganti della montagna”, opera incompiuta di Luigi Pirandello. La prima versione di questo spettacolo vede la luce sempre nel 1947, primo anno del Piccolo. Questa prima versione risulta – fra tutte – quella più aderente al testo e alle didascalie pirandelliani. Anche la soluzione trovata per la mancanza di un finale è estremamente semplice.

Diversa appare invece la versione allestita dallo stesso Strehler nel 1966. Le differenze maggiori si possono vedere nella soluzione adottata per la scena finale, quella assente nel testo pirandelliano. Anche la scenografia viene modificata: in questa versione consta di un lenzuolo-sipario posizionato al centro del palco e di un reale sipario di ferro.

Strehler poi mette in scena una terza volta I giganti nel 1994. Questa volta, tuttavia, si limita a riproporre l’allestimento – ormai diventato scuola – del 1966. (Roberto Alonge, Giorgio Strehler, “I giganti della montagna” di Pirandello)

Penso si possa affermare che il Piccolo sia stato – sia dal punto organizzativo sia culturale – una punta di diamante del teatro italiano del dopoguerra. Nonostante un successivo rivolgimento in senso negativo del modello promosso dal Piccolo, l’importanza culturale non è mai venuta meno.

Ancora oggi, sia su suolo nazionale che come Teatro d’Europa, il Piccolo riesce a valorizzare la cultura teatrale con allestimenti senza dubbio degni della migliore tradizione.

“Soffriamo soprattutto di una mancanza di totalità, che ci porta alla dispersione e alla dissipazione di noi stessi” (J.G.)

La seconda esperienza di cui vorrei parlare è il soggiorno, durato diversi anni, di Jerzy Grotowski nella cittadina italiana di Pontedera. Questo soggiorno ebbe grande importanza in primis per l’artista e in secondo luogo anche per il contesto teatrale italiano, che ha potuto così conoscere il pensiero e si è potuto confrontare con la tecnica e l’esperienza del grande regista e uomo di teatro polacco.

La figura di Grotowski è una di quelle che più rappresenta il movimento teatrale del Novecento, le sue idee, i suoi progressi e le direzioni prese.
Sebbene nei primi anni Grotowski vivesse nell’ombra del regime comunista, il suo teatro è riuscito a influire su tutta la scena europea, grazie soprattutto ai suoi allievi e collaboratori – tra i quali anche Eugenio Barba, Ryszard Cieslak, Maud Robart e Thomas Richards – che, diventando essi stessi uomini di teatro fra i più importanti, sono riusciti a portare avanti le teorie del loro Maestro.

L’esperienza teatrale di Grotowski inizia nella Polonia comunista degli anni successivi la fine della Seconda guerra mondiale.
Nato nel 1933, ancora giovane Grotowski si appassiona al teatro e, dopo aver soggiornato a Cracovia si sposta nella cittadina di Opole, dove dirige il Teatro delle tredici file con Flaszen.
Inizialmente, gli spettacoli che mette in scena sono riconducibili ai modelli più classici del teatro: selezionava testi della tradizione e la messa in scena corrispondeva gli schemi classici della visione frontale dello spettacolo da parte del pubblico.
Questo primo periodo vede messi in scena spettacoli tra cui i più importanti restano Akropolis (1962) e Apocalypsis cum figuris (1969).

Il periodo cosiddetto de “L’arte come presentazione” termina però bruscamente nel 1969 – 1970, quando Grotowski decide di non voler più fare spettacoli.
Inizia quindi la seconda grande fase della vita artistica di Grotowski, a sua volta suddivisibile in tre ulteriori momenti artistici, che però hanno in comune una ricerca che non va più in direzione dello spettacolo classico, inscritto in un rapporto di messa in scena frontale e di distanza tra attore e spettatore.
Da questo momento Grotowski inizia a lavorare a un teatro senza spettacoli, concepito come una sorta di “palestra” per attori e spettatori, che permetta di lavorare sulla persona, di superare la barriera che ha sempre diviso il palco dalla platea e di rendere tutti partecipi dello stesso accadimento.

Il primo di questi tre momenti è denominato “Parateatro”. L’obiettivo che Grotowski cerca di raggiungere è quello di arrivare a un incontro tra le persone, non più divise nelle categorie di attori e spettatori. Con le tecniche parateatrali le persone sono in grado di disarmarsi e farsi conoscere per quello che sono davvero, senza bisogno di barriere e mediazioni, per produrre un incontro reale tra esseri umani.

La seconda fase, opposta alla precedente, è il cosiddetto “Teatro delle fonti”: qui non è più il gruppo a dover lavorare sull’incontro, ma è l’individuo che deve lavorare su sé stesso.

La terza e ultima fase, quella de “L’arte come veicolo” chiude il cerchio, in quanto Grotowski qui torna all’opera, che tuttavia è considerata in termini di opus e non di spettacoli.

In queste ultime fasi, poi, risulta sempre più evidente il lavoro di Grotowski sul corpo, da lui considerato fondamentale. Egli infatti, partendo dal Metodo di Stanislavskij, e in un certo senso superandolo, propone esercizi utili alla pratica attoriale così come all’individuo per lavorare su sé stesso e sulle sue interazioni col gruppo e con il mondo.

Ed è questo il contesto nel quale Grotowski arriva a Pontedera, piccolo paesino vicino Pisa.

Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards – questo il nome dato al centro toscano – viene fondato da Grotowski nel 1986. Il tipo di lavoro che continua qui, perfettamente inscritto nella fase de “L’arte come veicolo”, si concentra sulle ricerche sul corpo ma arriva anche alla messa in scena di opere (intese nel senso di opus), sulla scia di quelle che aveva realizzato negli Stati Uniti, a Irvine.
Il punto nevralgico di queste Actions è appunto quello di usare il corpo per arrivare al sentimento: in questa fase Grotowski quasi “supera” Stanislavskij, e afferma che il modo per poter arrivare all’interno è partire dall’esterno. Gli esercizi elaborati in questa fase sono ciò che permette al corpo di ricordare. Ma il ricordo è appunto scaturito da un esercizio, quindi da un atto puramente fisico, non mentale.
Per tutta la sua carriera Grotowski si era mosso “al contrario”: egli partiva dalla pratica per arrivare alla teoria così come partiva dal corpo per arrivare alla mente.

I protagonisti, insieme a lui, della fase toscana sono stati Thomas Richards, poi suo maggiore erede e attualmente Direttore del Workcenter, Maud Robart, cantante di origini haitiane e Mario Biagini, ora Direttore Associato del Workcenter.

Attualmente, il gruppo del Workcenter è diviso in due gruppi: “Focused Research Team in Art as Vehicle” diretto da Thomas Richards e “Open Program” diretto da Mario Biagini.

“Nella lotta con la nostra personale verità, nello sforzo per liberarci della maschera che ci è imposta dalla vita, il teatro con la sua corporea percettività, mi è sempre parso un luogo di provocazione, capace di sfidare sé stesso ed il pubblico violando le immagini, i sentimenti e i giudizi stereotipati e comunemente accettati […]” (J.G.)

Giorgio Strehler | “Io so e non so perché lo faccio il teatro ma so che devo farlo, che devo e voglio farlo facendo entrare nel teatro tutto me stesso, uomo politico e no, civile e no, ideologo, poeta, musicista, attore, pagliaccio, amante, critico, me insomma, con quello che sono e penso di essere e quello che penso e credo sia vita. Poco so, ma quel poco lo dico.

Il Regista nasce in un paesino vicino Trieste il 14 agosto 1921, in un’internazionale famiglia di musicisti. Fin da piccolo, infatti, Strehler studia musica, pur nutrendo una forte passione per il teatro. Da bambino Strehler si trasferisce a Milano con la madre, dove inizia gli studi. È sempre a Milano che egli stringe una forte amicizia con Paolo Grassi, incontrato “alla fermata angolo via Petrella del tram numero sei, direzione Loreto-Duomo”.

La sua consapevolezza in campo teatrale si mostra precocemente, quando nel 1942 scrive e pubblica l’articolo Responsabilità della regia, nel quale afferma il bisogno di cambiamento del teatro italiano dell’epoca.

A seguito della Guerra, quando, esiliato in Svizzera, realizza le sue prime regie sotto falso nome, Strehler torna in Italia con l’obiettivo di fare il regista e il progetto di fondare un teatro che si faccia portatore del tanto agognato cambiamento. Questo suo grande progetto viene portato a compimento nel 1947 quando, insieme all’amico Paolo Grassi, Strehler fonda il Piccolo Teatro della Città di Milano, primo teatro stabile pubblico d’Italia e capostipite del modello in vigore tutt’oggi.

Il Piccolo non resta però l’unico grande progetto portato avanti dal Regista: nel 1968, infatti, Strehler lascia momentaneamente il Piccolo per fondare il gruppo Teatro e Azione, con cui collabora fino al 1972, anno in cui riprende in mano la direzione del Piccolo.

Un terzo ma altrettanto importante progetto vede Strehler collaborare con il governo d’oltralpe – in particolare con Jack Lang e François Mitterrand – alla nascita di un Teatro d’Europa a Parigi, dal quale prese avvio in seguito l’Unione dei Teatri d’Europa.

Come regista e uomo di teatro, Strehler era estremamente interessato all’uomo in tutte le sue sfaccettature. Per questo egli scelse sempre di mettere in scena spettacoli presi dalla tradizione classica fino a quella più contemporanea e territoriale con il fine di mostrare il personaggio – uomo, sempre indagato in tutte le sue sfumature.

Da Shakespeare a Goldoni, da Bertolazzi a Brecht, Strehler ha diretto spettacoli interessandosi anche dei “segni” del teatro, delle scenografie, delle luci, delle atmosfere.

Giorgio Strehler muore la notte di Natale 1997.

Paolo Grassi | “Attraverso il teatro io penso tutto il resto: io vedo la politica attraverso il teatro, vedo l’urbanistica […]. Ho creduto e ho vissuto per il momento fragile, insostituibile, della comunicazione teatrale.”

Paolo Grassi nasce nel 1919 a Milano, e sviluppa presto una profonda passione per il teatro che lo spinge verso il mondo del giornalismo e dell’editoria, per poi portarlo anche al lavoro come regista. A Milano entra in contatto con Giorgio Strehler, con cui condivide il progetto per la creazione di un nuovo sistema teatrale più efficace.

Dall’inizio degli anni ’40 Grassi si specializza nel campo dell’organizzazione teatrale, gestisce la compagnia Ninchi-Dori-Tumiati e fonda il gruppo d’avanguardia Palcoscenico. Dopo aver militato nella Resistenza, dopo la fine della Guerra, Grassi scrive come critico e redattore dell’Avanti!.

Nel 1947 Grassi è, insieme a Giorgio Strehler e appoggiato dalla moglie Nina Vinchi, uno dei fondatori del Piccolo Teatro di Milano.

La fondazione di questo teatro, a livello organizzativo, modifica fin dalle radici il panorama italiano, creando un nuovo modello organizzativo che sarebbe poi diventato preponderante – come tra l’altro ancora è.

Grassi lascia il Piccolo nel 1972, quando entra a far parte della sovrintendenza della Scala di Milano. È solo nel 1977 che Grassi lascia la città di Milano alla volta di Roma, dove lavora come Presidente della Rai-Tv. Negli anni ’80 poi, anche a seguito delle polemiche relative alla sua gestione della Rai, Grassi si dedica nuovamente all’editoria.

Paolo Grassi muore il 14 marzo 1981.

In Italia il binomio Grassi – Strehler è ormai diventato proverbiale. E questo non solo perché si tratta di due importantissime personalità nel mondo del teatro, ma anche perché con la fondazione del Piccolo, del primo “teatro d’arte per tutti”, hanno contribuito a modificare il modo di concepire la pratica e l’organizzazione teatrale nel nostro Paese.

Il loro apporto non è importante solo dal punto di vista più strettamente culturale; queste due personalità sono riuscite, in un momento di grande crisi e incertezza, a donare nuova vita al teatro italiano. Vita che – sebbene non priva di problemi – dura ancora oggi.

 

Nota: le informazioni sulle vite di Giorgio Strehler e Paolo Grassi sono prese dal sito del Piccolo Teatro di Milano.

Alla fine di queste considerazioni – purtroppo non molto positive – sulle condizioni del teatro italiano, vorrei dire che, nonostante tutto, del buono nel nostro teatro c’è sempre stato.

I prossimi articoli parleranno del teatro italiano del secondo Novecento, in particolare della nascita di quello che a oggi è uno dei più importanti teatri italiani – il Piccolo Teatro di Milano – fondato ormai 71 anni fa, e di due importanti, per quanto non troppo conosciuti, artisti che con il loro passaggio su suolo italiano hanno contributo a modificare il panorama esistente.

Parlare delle debolezze del teatro nazionale al giorno d’oggi non vuol dire semplicemente sminuire ciò con cui abbiamo a che fare: penso, infatti, che la consapevolezza di quello che ci circonda sia fondamentale per riuscire a trovare una soluzione.

Poi, come diceva Silvio D’Amico, qualcuno sarà in grado di ricostruire partendo dalle macerie che oggi ci circondano. Mi auguro che ciò accada in fretta. Mi auguro che le nuove generazioni di teatranti, attori, studiosi e operatori riescano a trovare un’uscita dall’impasse che ormai da anni sta bloccando la crescita del teatro. Credo che una fra le cose più importanti ora sia ritornare a guardare al teatro non come a un’attività commerciale, ma come a un’arte.

Un’arte fatta di persone, di storia, di tradizione e d’innovazione. Un’arte che, proprio per il suo essere indipendente dal controllo da parte di macchine o della medialità, può non essere sempre perfetta, ma che sarà sempre sentita da chi la fa e – spero – da chi assiste. Credo inoltre che per liberarsi dalla crisi sia necessario un certo grado di innovazione in campo teatrale, ma credo altresì che quest’innovazione non debba diventare la scusa per arrivare all’espropriazione della forma teatrale, come a volte avviene.

Come ho sentito dire a Marco Baliani durante una recente conferenza, per portare avanti la tradizione è a volte necessario tradirla.

Ritengo tuttavia che questo tradimento non debba essere totale, ma pensato, calcolato. Deve insomma restare tradimento e non diventare trasfigurazione. Penso che il grado di innovazione di cui necessita il teatro dovrebbe essere più nell’ordine dei mezzi che esso impiega che nell’ordine dei contenuti. E allo stesso tempo credo sia fondamentale, a lato dell’innovazione, continuare a lottare affinché i classici restino il caposaldo non solo del medium teatrale, ma della società intera.

Anche se già fatta e già vista, una messa in scena di Antigone, Amleto o Madre Coraggio avrà sempre qualcosa da dire a chi è seduto in platea.

L’importanza dei classici sta proprio qui: nell’essere in grado, anche a secoli di distanza, di parlare alle persone della loro vita, della loro quotidianità, dei loro problemi.

Il teatro non può negare la tradizione anche per un altro fattore: il teatro è tradizione. Da secoli a questa parte il teatro è stato in grado di comunicare con le persone in un rapporto di compresenza estraneo a tutte le arti che sono nate successivamente. Certo, gli effetti speciali che vediamo realizzati nelle pellicole cinematografiche sono estremamente verosimili, ma – almeno a mio parere – non potranno mai competere con le visioni che sprigiona negli spettatori il racconto che si può ascoltare tra le pareti di un teatro.

Penso che un altro modo per risolvere la crisi del teatro sia andare incontro al pubblico. Ritengo che compito di chi fa teatro – a tutti i livelli – sia cercare di trasmettere la forza di questo mezzo espressivo che, sebbene non sia in grado di mettere sulla scena eclatanti effetti speciali, è comunque in grado – anche con pochi attori – di far vivere scene ed emozioni al suo pubblico.

Perché il teatro – a differenza del cinema o della televisione – è fatica, anche per il pubblico.

Gli spettatori non possono sedere comodamente in poltrona e aspettare la pubblicità. Devono impegnarsi, devono sentire la storia che viene loro narrata, devono partecipare e devono provare sulla loro pelle le emozioni e le paure che i personaggi stanno vivendo sulla scena. Gli spettatori devono investire sé stessi, nel tempo della rappresentazione, per infrangere ogni barriera e ogni scetticismo, per credere a quello che viene rappresentato e per inventare ciò che non è stato possibile portare materialmente sul palco. E penso sia questo ciò che rende speciale il teatro, il fatto di creare un legame forte tra chi è sul palco e chi in platea, il fatto di mettere in scena l’impossibile e – anche se solo per un paio d’ore – farlo diventare possibile.

Il fatto, ancora, di coinvolgere lo spettatore, di provocare in lui domande e – in alcuni casi – di farlo tornare a casa con delle risposte.

La grande forza del teatro è creare gruppi di persone, stimolarle e, nei limiti del possibile, farle cambiare.

Tutti cambiamo nel corso di uno spettacolo: ci lasciamo alle spalle le giornate negative così come quelle positive, ci immergiamo in un mondo che probabilmente non ci apparterrà mai, diamo la possibilità a una compagnia di attori di indagare le nostre paure e le nostre speranze più riposte e di portarle alla luce, togliamo freni e barriere e ci lasciamo trasportare da una storia che – per quanto lontana nel tempo e nello spazio – parla un po’ anche di noi.

Nonostante le molteplici difficoltà che il teatro italiano si trova ad affrontare – soprattutto a livello istituzionale – penso di poter dire che non si è mai arreso, soprattutto a livelli che istituzionali non sono.

Quel processo iniziato dal Nuovo Teatro, nato nel 1959, che prendeva a modello le avanguardie storiche Novecentesche nate e diffusesi in Europa e nel mondo – tra cui Living Theatre, Teatr Laboratorium, Odin Teatret e altri – e portato avanti fino alla fine degli anni ’90 non ha sortito gli effetti sperati.

Nei quattro decenni lungo i quali si è sviluppato, il Nuovo Teatro si è articolato in Cantine romane (anni ’60 e ‘70), Generazione dei gruppi (anni ‘80) e Teatri Novanta (anni ‘90).

Ponendosi sulla scia delle avanguardie storiche, questo teatro si riallacciava a una visione che non vedeva nel testo l’elemento principale e più importante del teatro. Al contrario, ciò su cui puntava di più era il momento di compresenza tra pubblico e attori – l’hic et nunc della rappresentazione – e l’intensità comunicativa degli spettacoli. Per questo motivo la tendenza era lavorare su platee poco numerose e “di nicchia”.

Il pubblico non era più chiamato a partecipare all’evento teatrale grazie alla presenza di nomi altisonanti sui cartelloni: gli spettatori dovevano scegliere un determinato spettacolo sulla base di motivazioni di tipo culturale, di affinità o di appartenenza generazionale. (Mimma Gallina, Ri-Organizzare teatro. Produzione, distribuzione, gestione)

Per giungere a un maggiore coinvolgimento del pubblico, inoltre, sempre in questo periodo si sviluppano nuove modalità, tuttora presenti nel teatro contemporaneo.

Un esempio per tutti è l’organizzazione di workshop teatrali. Questi – presenti sotto forma di singole lezioni o brevi esperienze teoriche e pratiche – hanno l’obiettivo di portare a una fidelizzazione del pubblico, che viene attirato dalle lezioni tenute da esperti del settore per interesse personale, professionale o anche solo per mettersi alla prova. (Mimma Gallina, Ri-Organizzare teatro. Produzione, distribuzione, gestione)

Un’altra modalità che sempre più speso viene utilizzata da compagnie – spesso giovani – per riuscire a fare del teatro il loro lavoro è il teatro sociale. Questo ha il doppio vantaggio di guardare al contempo al passato e al presente. Il teatro sociale infatti da un lato recupera quella che era stata la funzione primigenia del teatro in epoca greco-romana e dall’altro guarda alle problematiche e alle necessità di oggi.

I progetti di teatro sociale nascono principalmente in luoghi dove è necessario ricreare una sorta di collante sociale o dove l’integrazione di alcuni gruppi risulta particolarmente complessa. (Mimma Gallina, Ri-Organizzare teatro. Produzione, distribuzione, gestione)
Il teatro viene qui usato come una sorta di “terapia di gruppo”, necessaria per far percepire un legame agli elementi di una comunità. Numerosi sono ad esempio i gruppi di teatro sociale nati nella periferia bolognese, in particolare in quartieri problematici quali il Pilastro.

Il mezzo più usato e che ha riscosso maggior successo resta tuttavia il sistema delle residenze.

Queste – che possono essere artistiche od organizzative – permettono ai gruppi che non hanno le risorse necessarie a operare all’interno del modello stabile un minimo di costanza e la possibilità di creare e operare su un terreno non ostile. Le residenze si contraddistinguono principalmente per essere presenti a livello regionale, quindi generalmente ben ancorate al loro territorio di provenienza, col quale mantengono un rapporto molto stretto.

Le residenze inoltre, fanno quello che possiamo chiamare “teatro povero”.

Non bisogna però confonderlo con il teatro povero teorizzato da Grotowski: questo è il teatro povero di gruppi che faticano a stare a galla. È, come lo definisce Mimma Gallina, un “teatro povero per vocazione e necessità”. (Mimma Gallina, Ri-Organizzare teatro. Produzione, distribuzione, gestione)

Ciò che a mio parere fa ben sperare è che, nonostante le – molte – difficoltà, ci sia ancora qualcuno che decide di provarci. Questa ostinata voglia di andare avanti dimostrata dalle compagnie lascia intuire che forse non è ancora tutto perduto, e che è ancora possibile sperare di trovare una soluzione alla crisi ormai cronica del teatro italiano. Il fatto che i nuovi gruppi lottino affinché le loro debolezze diventino le loro forze, la volontà di continuare a lavorare, a creare e a farsi conoscere, dimostra forse che la voglia di riuscire può in fin dei conti prevalere sulle costanti difficoltà. E la nascita di fenomeni quali le residenze, fa notare che esiste anche la voglia di lavorare insieme, in gruppi di persone con la stessa passione che mettono a disposizione le loro conoscenze e le loro competenze per riuscire a trovare una soluzione condivisa.

Forse a salvare la situazione non saranno le leggi di settore, che sempre stentano ad arrivare, o i tentativi di cambiamento promossi dai grandi Teatri stabili.

Forse il cambiamento arriverà dal “basso”, da chi di questo cambiamento ha davvero bisogno e da chi in questo cambiamento crede davvero.

“… È il tessuto stesso del teatro pubblico che, a venticinque anni dalla nascita del primo organismo del genere, appare come corroso, stanco, senza slanci, senza fiducia.” (Strehler)

Generalmente, quando si parla del sistema teatrale italiano si parla di Sistema degli stabili o di Stabilità diffusa.

Ma non è sempre stato così: fino a meno di un secolo fa, infatti, il teatro italiano si basava sul capocomicato, quindi sulle compagnie di giro e sulle figure dei Grandi attori che portavano i loro spettacoli attraverso la penisola. Questo sistema cade solo nel 1947, anno in cui Grassi e Strehler fondano il Piccolo Teatro di Milano. Questo può essere considerato il giro di boa nella storia teatrale italiana: non solo infatti il nuovo sistema portava ad arenarsi il sistema basato sulle compagnie di giro, ma anche la tradizione del Grande attore era destinata a cadere nel dimenticatoio.

Ed è sempre grazie a questa rivoluzione che viene introdotta nel nostro paese la regia propriamente detta.

Come spesso accade, tuttavia, quella che a un primo sguardo pareva la rivoluzione che tutto il mondo teatrale stava aspettando si è ben presto trovata a dover fronteggiare una grave crisi. Crisi nata, in parte, da uno dei suoi stessi fondatori: è proprio Strehler che per un – seppur breve – periodo lascia la direzione del Piccolo per iniziare a lavorare con il Gruppo Teatro e Azione, quindi ripudiando momentaneamente quello che lui stesso aveva creato.

Vero è che questo si inscrive nel quadro più ampio di un periodo tutt’altro che semplice, e che nell’immaginario di tutti prende il nome di ’68.

A seguito del Convengo di Ivrea – organizzato l’anno precedente, ma degno precursore delle idee sessantottine – i più grandi esperti del teatro italiano e non solo decidono che è giunto il momento di fare qualcosa.

Ma cosa?

Ciò che aveva fatto scoppiare la protesta intestina dei teatranti italiani era stato da una parte il voler fondare un teatro che fosse d’avanguardia e non più nazionale e dall’altra il cercare un pubblico nuovo, non più solo borghese, ma un pubblico “vergine”, che entrasse in teatro per la prima volta, e che fosse legato a una dimensione più territoriale.

Di questi due obiettivi solo uno venne raggiunto appieno: il teatro è, ancor oggi, decentrato. Il bisogno di trovare un legame con la dimensione territoriale ha portato i teatranti italiani a legarsi la concetto di regione, spingendo per una localizzazione del sistema teatrale, che viene ora gestito a livello – appunto – regionale.

Uno dei primi esempi di questa regionalizzazione si può ritrovare nella nostra stessa realtà, quando nel 1977 ATER decide di fondare a Modena il primo Teatro Stabile regionale, Emilia-Romagna Teatro (oggi Fondazione e Teatro Nazionale).

Nonostante alti e bassi, la forma “stabile” del teatro italiano non è mai stata tradita del tutto: è dagli anni ’80 che il sistema degli Stabili, nonostante la crisi, si ritrova ancora maggiormente articolato in Stabili pubblici, Stabili privati e Teatri stabili d’innovazione.

Ma è proprio vero che al territorialismo corrisponde la stabilità? E non sto parlando di cifre, stime e statistiche. Parlo dell’essenza del teatro, che è l’arte di aggregazione per eccellenza.

Il teatro, fin dalla sua invenzione, è stato lo strumento utilizzato per unire, per fare incontrare, per criticare sì, ma per criticare insieme. Il teatro dovrebbe aggregare, non dividere, e temo che in un certo senso una troppo estrema territorializzazione dello strumento teatrale possa portare sul lungo raggio a una divisione sempre più marcata.

Ritengo che la ricerca di un così forte senso di vicinanza dello e allo spettatore possa portare a un autentico legame con il territorio, ma anche alla mancanza di una visione d’insieme.
Con questo non intendo affermare la necessità dell’abbandono dei regionalismi, così importanti per la cultura del nostro Paese e anche per le forme del teatro dialettale, ma la necessità di una soluzione che sia comune.

Un teatro quindi che non porti a un generale appiattimento, ma a una crescita condivisa.

Ritengo che in quanto gente di teatro ci sia bisogno, ora più che mai, di fare fronte comune per superare crisi e avversità che sembrano arrivare da ogni direzione. E sono convinta della necessità di fare questo non con la consapevolezza delle differenze e delle singole caratterizzazioni, ma con la coscienza di appartenere tutti allo stesso elemento.

“L’essenza del teatro è costituita da un incontro. L’individuo che compie un atto di auto-penetrazione, stabilisce in qualche modo un contatto con sé stesso: cioè, un confronto estremo, sincero, disciplinato, preciso e totale – non soltanto un confronto con i suoi pensieri, ma un confronto tale da coinvolgere l’intero suo essere, dai suoi istinti e ragioni inconsce fino allo stadio della sua più lucida consapevolezza” (Jerzy Grotowski)