La povertà del teatro
“Ricercate sempre la verità vera e non la concezione popolare della verità. Servitevi delle vostre reali, specifiche ed intime esperienze. Questo equivarrà spesso a dover dare l’impressione di una mancanza di tatto. Mirate sempre all’autenticità” (Per un teatro povero, J.G.)
Uno degli uomini di teatro più influenti del XX secolo è stato senza dubbio Jerzy Grotowski.
Nato nel 1933 in una piccola cittadina polacca, nel 1955 egli si laurea alla Scuola Superiore d’Arte Teatrale di Cracovia. Dopo un viaggio in Russia che gli farà conoscere i grandi maestri del teatro Ottocentesco Grotowski torna in Polonia e inizia la sua carriera di regista.
Nel 1959 si trasferisce nella cittadina di Opole dove inizia a lavorare nel teatro locale, il “Teatro delle tredici file”, poi rinominato Teatr Laboratorium nel 1962.
Nel 1965 egli decide di trasferire il suo Teatr Laboratorium a Wroclaw. A questo punto la grande carriera di Grotowski può dirsi iniziata.
La sua importanza in campo teatrale deriva soprattutto dalle sue pratiche relative al training dell’attore, dalle sue idee che vedono l’attore come il punto focale dell’esercizio teatrale. Un esercizio che deve tendere al miglioramento della persona – attore o spettatore – attraverso l’allenamento o attraverso l’esperienza diretta di quell’allenamento. Ma la novità di Grotowski deriva anche dal suo particolare modo di guardare al teatro come istituzione, e in particolare l’analisi che egli fa del teatro del suo tempo. Egli analizza la posizione del teatro rispetto ai nuovi mezzi di comunicazione, in particolare cinema e televisione, e il loro impatto sulle abitudini delle persone. Grotowski si pone in aperto contrasto nei confronti di quei registi e studiosi che volevano che il teatro si modificasse e modificasse i suoi mezzi per competere con le neonate tecnologie.
“Eliminando gradualmente tutto ciò che si dimostrava superfluo, scoprimmo che il teatro può esistere senza cerone, senza costumi e scenografie decorative, senza una zona separata di rappresentazione (il palcoscenico), senza effetti sonori e di luci, ecc. non può invece esistere senza un rapporto diretto e palpabile, una comunione di vita fra l’attore e lo spettatore” (Per un teatro povero, J.G.)
Quello che Grotowski affermava era invece la necessità di un ritorno alle origini: il teatro non potrà mai combattere con il cinema e la televisione usando i suoi mezzi. Per vincere – o almeno continuare a combattere – questa battaglia il teatro deve puntare non sull’uniformazione, ma sull’esaltazione di quegli aspetti che lo rendono diverso e in un certo senso più ricco rispetto ai nuovi mezzi: il contatto con gli attori, uno scambio continuo tra chi recita e chi assiste, una compresenza di persone disposte a mettersi a nudo e a lasciarsi “colpire” dallo spettacolo a cui stanno assistendo.
“Per quanto il teatro possa estendere e sfruttare le proprie risorse meccaniche esso rimarrà pur sempre inferiore sul piano tecnologico al cinema e alla televisione” (Per un teatro povero, J.G.), così afferma Jerzy Grotowski in un articolo pubblicato nel 1965.
E come dargli torto? Le possibilità tecnologiche dei nuovi mezzi di spettacolo sono infinitamente superiori rispetto a quelle proprie dello spettacolo dal vivo. Le tecniche applicabili al materiale registrato infinitamente più numerose rispetto a quelle utilizzabili in un contesto di pura presenza.
Ritengo che le soluzione proposta da Grotowski sia stata incredibilmente innovativa, soprattutto considerando il periodo in cui è stata formulata. L’idea di un ritorno alle origini – già formulata da altri prima di lui – arriva con il maestro polacco ad un punto che prima non era stato mai raggiunto: viene messa in pratica. Non solo, oltre a essere messa in pratica diventa la cifra stilistica di una carriera.
Dopo il 1970, anno in cui smette di fare spettacoli, Grotowski consacra la sua intera carriera all’indagine sull’attore e su nuove forme di teatralità che si basino esclusivamente sul rapporto di scambio che avviene nel contesto della messa in scena. Questa ricerca porta Grotowski all’elaborazioni di vari metodi che, se seguiti alla stregua di fasi successive, culminano con la fondazione del Workcenter di Pontedera, in Toscana. Qui Grotowski lavora per tredici anni, dal 1986 al 1999, anno della sua scomparsa. Ed è in questo luogo che si può vedere l’ultima eredità di Grotowski: il gruppo, sebbene si sia diviso in due correnti diverse, continua a portare avanti il lavoro e le idee del maestro che li ha ispirati.
Il lavoro costante, la dedizione portano Grotowski a essere considerato uno dei più influenti uomini di teatro nel Novecento. Il suo peculiare stile d’indagine – che consisteva nel partire dalla pratica per poi arrivare all’elaborazione teorica – ha dato frutti importanti, come dimostra il fatto che ancora oggi le sue tecniche vengono studiate e utilizzate.
Ma quello che a mio parere è più degno di nota quando si parla di Jerzy Grotowski non sono tanto le tecniche – sebbene importantissime – ma l’idea di fondo che egli si è sempre portata appresso durante tutto il corso della sua carriera. Ed è l’idea di un teatro utile, importante, che sia in grado – attraverso sacrifici e difficoltà – di portare a un miglioramento della società intera.
Leggendo i testi e le interviste di Grotowski l’idea forte che mi colpisce è la profonda speranza che egli riponeva nel mezzo teatrale: nonostante tutte le difficoltà egli non ha mai perso la speranza di vedere il teatro diventare la più alta forma d’arte. Un teatro che sia primariamente lavoro su di sé, un’esperienza cercata da coloro che vogliono mettersi a nudo, che vogliono capire e migliorare sé stessi. Un teatro che sia incontro: incontro tra persone, tra corpi ma soprattutto tra spiriti inquieti in cerca della loro verità e che nel teatro vedono la possibilità di ritrovarsi.
L’idea infine che il teatro possa essere lo specchio attraverso cui si guarda alla realtà, il luogo in cui ci si può liberare dalle maschere e vedere finalmente la verità che nascondiamo a noi stessi.
“Nella lotta con la nostra personale verità, nello sforzo per liberarci della maschera che ci è imposta dalla vita, il teatro con la sua corporea percettività, mi è sempre parso un luogo di provocazione, capace di sfidare sé stesso ed il pubblico violando le immagini, i sentimenti e i giudizi stereotipati e comunemente accettati […]” (Per un teatro povero, J.G.)