“… È il tessuto stesso del teatro pubblico che, a venticinque anni dalla nascita del primo organismo del genere, appare come corroso, stanco, senza slanci, senza fiducia.” (Strehler)
Generalmente, quando si parla del sistema teatrale italiano si parla di Sistema degli stabili o di Stabilità diffusa.
Ma non è sempre stato così: fino a meno di un secolo fa, infatti, il teatro italiano si basava sul capocomicato, quindi sulle compagnie di giro e sulle figure dei Grandi attori che portavano i loro spettacoli attraverso la penisola. Questo sistema cade solo nel 1947, anno in cui Grassi e Strehler fondano il Piccolo Teatro di Milano. Questo può essere considerato il giro di boa nella storia teatrale italiana: non solo infatti il nuovo sistema portava ad arenarsi il sistema basato sulle compagnie di giro, ma anche la tradizione del Grande attore era destinata a cadere nel dimenticatoio.
Ed è sempre grazie a questa rivoluzione che viene introdotta nel nostro paese la regia propriamente detta.
Come spesso accade, tuttavia, quella che a un primo sguardo pareva la rivoluzione che tutto il mondo teatrale stava aspettando si è ben presto trovata a dover fronteggiare una grave crisi. Crisi nata, in parte, da uno dei suoi stessi fondatori: è proprio Strehler che per un – seppur breve – periodo lascia la direzione del Piccolo per iniziare a lavorare con il Gruppo Teatro e Azione, quindi ripudiando momentaneamente quello che lui stesso aveva creato.
Vero è che questo si inscrive nel quadro più ampio di un periodo tutt’altro che semplice, e che nell’immaginario di tutti prende il nome di ’68.
A seguito del Convengo di Ivrea – organizzato l’anno precedente, ma degno precursore delle idee sessantottine – i più grandi esperti del teatro italiano e non solo decidono che è giunto il momento di fare qualcosa.
Ma cosa?
Ciò che aveva fatto scoppiare la protesta intestina dei teatranti italiani era stato da una parte il voler fondare un teatro che fosse d’avanguardia e non più nazionale e dall’altra il cercare un pubblico nuovo, non più solo borghese, ma un pubblico “vergine”, che entrasse in teatro per la prima volta, e che fosse legato a una dimensione più territoriale.
Di questi due obiettivi solo uno venne raggiunto appieno: il teatro è, ancor oggi, decentrato. Il bisogno di trovare un legame con la dimensione territoriale ha portato i teatranti italiani a legarsi la concetto di regione, spingendo per una localizzazione del sistema teatrale, che viene ora gestito a livello – appunto – regionale.
Uno dei primi esempi di questa regionalizzazione si può ritrovare nella nostra stessa realtà, quando nel 1977 ATER decide di fondare a Modena il primo Teatro Stabile regionale, Emilia-Romagna Teatro (oggi Fondazione e Teatro Nazionale).
Nonostante alti e bassi, la forma “stabile” del teatro italiano non è mai stata tradita del tutto: è dagli anni ’80 che il sistema degli Stabili, nonostante la crisi, si ritrova ancora maggiormente articolato in Stabili pubblici, Stabili privati e Teatri stabili d’innovazione.
Ma è proprio vero che al territorialismo corrisponde la stabilità? E non sto parlando di cifre, stime e statistiche. Parlo dell’essenza del teatro, che è l’arte di aggregazione per eccellenza.
Il teatro, fin dalla sua invenzione, è stato lo strumento utilizzato per unire, per fare incontrare, per criticare sì, ma per criticare insieme. Il teatro dovrebbe aggregare, non dividere, e temo che in un certo senso una troppo estrema territorializzazione dello strumento teatrale possa portare sul lungo raggio a una divisione sempre più marcata.
Ritengo che la ricerca di un così forte senso di vicinanza dello e allo spettatore possa portare a un autentico legame con il territorio, ma anche alla mancanza di una visione d’insieme.
Con questo non intendo affermare la necessità dell’abbandono dei regionalismi, così importanti per la cultura del nostro Paese e anche per le forme del teatro dialettale, ma la necessità di una soluzione che sia comune.
Un teatro quindi che non porti a un generale appiattimento, ma a una crescita condivisa.
Ritengo che in quanto gente di teatro ci sia bisogno, ora più che mai, di fare fronte comune per superare crisi e avversità che sembrano arrivare da ogni direzione. E sono convinta della necessità di fare questo non con la consapevolezza delle differenze e delle singole caratterizzazioni, ma con la coscienza di appartenere tutti allo stesso elemento.
“L’essenza del teatro è costituita da un incontro. L’individuo che compie un atto di auto-penetrazione, stabilisce in qualche modo un contatto con sé stesso: cioè, un confronto estremo, sincero, disciplinato, preciso e totale – non soltanto un confronto con i suoi pensieri, ma un confronto tale da coinvolgere l’intero suo essere, dai suoi istinti e ragioni inconsce fino allo stadio della sua più lucida consapevolezza” (Jerzy Grotowski)