“Un teatro non può giustificare la sua esistenza se non è cosciente della sua missione sociale” (Eugenio Barba)
Troppo spesso si tende a considerare il teatro come una forma immutabile e immutata, un’arte che si sviluppa nella fissità del suo modello, e che raramente si trova a interagire con i cambiamenti del mondo circostante. Niente di più falso. Il teatro è sempre stato influenzato – e ha contribuito a influenzare – il mondo “esterno”, adeguando i suoi mezzi e diffondendo le sue idee.
In particolare, un impatto molto forte è stato quello tra il teatro e i mezzi di comunicazione di massa: il teatro si è infatti visto pian piano portare via il ruolo di predominanza in ambito artistico che da sempre gli apparteneva. Prima il cinema, poi ancora di più l’avvento della televisione e nell’ultimo periodo internet e i suoi derivati hanno portato le persone a preferire il confort di uno schermo dentro casa rispetto all’impatto di un’interazione con altri esseri in carne e ossa tra le mura di un teatro.
Uno dei primi istinti che ha avuto il teatro quando si è trovato a dover interagire con i mezzi di comunicazione è stato di rifiuto, almeno dal punto di vista ideologico.
Se da un lato stiamo assistendo a un inesorabile avanzamento nelle tecnologie legate alla comunicazione, dall’altro si assiste a un sempre più marcato desiderio di “ritorno alle origini” del teatro: si cerca di riportare il teatro alla sua dimensione più prettamente rituale, si cerca un teatro che non si adegui ai nuovi schemi, ma che anzi li neghi e se ne allontani, che infine cerchi i suoi propri mezzi espressivi.
Nonostante questo, teatro e comunicazione sono sempre stati legati, e il loro legame del tutto particolare ha portato a non poche innovazioni nell’uno e nell’altro campo.
Ritengo che uno dei primi personaggi che sia riuscito a esplicitare questo legame tra le due discipline sia stato un attore e regista statunitense: Orson Welles. Eclettico personaggio nato nel 1915 in una cittadina del Wisconsin, dopo una vita divisa tra USA ed Europa, tra teatro, cinema e radio, Orson Welles viene ricordato come uno dei più grandi registi del Novecento. E questo anche grazie alle sue idee fuori dagli schemi.
Era il 30 ottobre 1938 quando sulle frequenze radio della CBS andava in onda un programma recitato – quasi fosse la lettura di uno spettacolo teatrale – dal titolo “La guerra dei mondi”. La storia raccontata è quella di un fantomatico attacco alieno che avrebbe avuto luogo a Grover’s Mill, in New Jersey. Il format utilizzato da Welles e colleghi era quello di un normale radiogiornale dell’epoca. Il risultato? Diverse agenzie stampa nei giorni successivi hanno parlato di reazioni di vero panico tra i cittadini.
Le persone, abituate a sentire notizie considerate vere alla radio, non capirono che si trattava di finzione – sebbene la natura di finzione della lettura fosse stata annunciata prima dell’inizio della trasmissione – e credettero davvero a un’invasione aliena.
Quella che a noi contemporanei sembra un’idea geniale e molto ben realizzata – e che ha contribuito a mettere Orson Welles nell’Olimpo dei geni novecenteschi – all’epoca creò molto più scalpore del previsto: i mezzi di comunicazione di massa erano ancora a uno stadio poco sviluppato, e nessuno prima di Welles aveva mai pensato di farne un uso di questo tipo.
A mio parere la genialità – e anche l’utilità – di questo show è stata quella di mostrare praticamente un primo ma forte trait d’union tra teatro e comunicazioni di massa, dimostrando quanto questi due elementi possano fondersi, anche se a un prezzo molto elevato.
“Non sarà sembrato che dicessi che il teatro è finito, vero? Ci sono dei grandi artisti che continuano a lavorarci, ma non è più collegato alla centrale elettrica principale. Il teatro resiste come un divino anacronismo: come l’opera lirica e il balletto classico. Un’arte che è rappresentazione più che creazione, una fonte di gioia e meraviglia, ma non una cosa del presente” (Orson Welles)
Erano quelli gli anni delle nuove forme di comunicazione, il mondo stava cambiando, stava prendendo una nuova direzione, anche se nessuno poteva ancora immaginare quale.
Trovo interessante il fatto che a cavalcare quei tempi sia stato un uomo nato da e nel teatro, sebbene molto critico nei confronti di questa forma d’arte.
L’analisi sui nuovi mezzi di comunicazione porta Welles ancora più lontano, fino ad arrivare a quello che viene considerato il suo capolavoro assoluto, Citizen Kane, non a caso tradotto in italiano “Quarto potere”. L’analisi della nuova comunicazione arriva con questo film a livelli mai raggiunti prima dal regista americano. Ancora una volta l’arte – anche se in questo caso si tratta di cinema anziché di teatro – è lo specchio attraverso il quale si guarda e si critica la società, che si stava riscoprendo all’epoca sempre più plasmata e plasmabile dai mezzi di comunicazione di massa.
Un’analisi degna di nota quella portata avanti da Welles, che è stato in grado, attraverso i suoi lavori, di portare alla luce un legame che sarebbe diventato fondamentale negli anni a venire.
Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico le menti di critici e studiosi non erano da meno: erano gli anni della riscoperta tardiva del pensiero di Artaud, gli anni in cui firmava i suoi primi lavori un bizzarro regista polacco che avrebbe rivoluzionato la concezione di teatro e il modo di farlo con i suoi lavori, le sue teorie e i suoi scritti.
Ed è proprio da Jerzy Grotowski che bisogna partire per capire da dove e come è nato il Terzo Teatro.
Grotowski si pone all’interno di una neonata tradizione che cerca di giungere a un rinnovamento del teatro che guarda indietro anziché guardare in avanti. Attraverso i suoi insegnamenti, attraverso i suoi spettacoli, Grotowski manda un messaggio di rinnovamento e di cambiamento rispetto al passato.
Poi Grotowski smette di fare spettacoli. E la cesura si fa sentire in tutto il mondo del teatro. E provoca un’onda d’urto che colpisce tutti coloro che all’epoca di teatro si stavano occupando.
Nella seconda fase del suo lavoro come regista, quella in cui dà alla luce i suoi spettacoli più famosi, da Akropolis a Il principe costante, Grotowski si basa su una concezione di teatro “povero”, intendendo con questo un teatro che non deve competere con i nuovi mezzi di comunicazione, primo fra tutti il cinema, in quanto una competizione “ad armi pari” avrebbe portato alla sconfitta del teatro. Bisognava quindi creare un teatro che non guardasse più al futuro, semmai al passato. (Per un teatro povero, J. Grotowski)
E fu proprio uno degli allievi di Grotowski a portare a degno compimento gli insegnamenti del maestro: la nozione di Terzo Teatro la si deve a Eugenio Barba, ex allievo del maestro polacco e fondatore dell’Odin Teatret e dell’antropologia teatrale.
La definizione di Terzo Teatro ha lo scopo principale di differenziare questa nuova pratica teatrale sia da quello che viene considerato il “primo teatro”, quello ufficiale, sia dal “secondo teatro”, l’avanguardia.
L’idea di Terzo teatro nasce dalla convinzione che il teatro per esistere abbia bisogno di persone, di un lavoro incentrato sull’attore. E qui, nelle tecniche di lavoro degli attori, nel training, si sente l’influenza di Grotowski.
Il manifesto del Terzo Teatro viene pubblicato nel 1976, con la firma di Eugenio Barba.
Quello di cui parla Barba è un teatro che non rientra più all’interno della vecchia dialettica tradizione – avanguardia, ma un teatro che guarda altrove.
Un teatro che guarda con particolare attenzione a Oriente, a quelle tradizioni teatrali che non soffrono – o almeno soffrono poco – dell’invadenza dei nuovi mezzi espressivi.
Teatri tradizionali, che mantengono viva la loro dimensione rituale.
Nel 1979, con la fondazione dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology), il lavoro di Barba si orienta ulteriormente in questa direzione.
Quello che si cerca è un teatro che sia lavoro per l’attore, che sia nuovo e che si basi sulla tradizione. In tutti i suoi anni di lavoro, l’ISTA ha contribuito a creare e diffondere una teatralità nuova e allo stesso tempo importante, un filone pratico e teorico che continua ad arricchirsi.
A prima vista questi due mondi – teatro e comunicazioni di massa – sembrano inconciliabili.
Non solo, si potrebbe quasi considerarli uno la nemesi dell’altro. Due mondi diversi e divisi, a volte in guerra, ma che combattono con armi diverse le loro battaglie, ognuno deciso a trovare la sua propria strada indipendentemente dall’altro.
Nonostante l’esperienza radiofonica di Welles, che sembrava aver creato una breccia attraverso cui questi due mondi potessero comunicare, la convivenza sembra difficile e piena di ostacoli.
Quarto potere e Terzo Teatro possono quindi comunicare tra loro ponendosi su un piano comune? Per ora la risposta sembra essere negativa, ma chissà che non arrivi un altro Orson Welles a farci cambiare idea.