Articoli e discussioni sul Teatro

Un teatro non può giustificare la sua esistenza se non è cosciente della sua missione sociale” (Eugenio Barba)

Troppo spesso si tende a considerare il teatro come una forma immutabile e immutata, un’arte che si sviluppa nella fissità del suo modello, e che raramente si trova a interagire con i cambiamenti del mondo circostante. Niente di più falso. Il teatro è sempre stato influenzato – e ha contribuito a influenzare – il mondo “esterno”, adeguando i suoi mezzi e diffondendo le sue idee.

In particolare, un impatto molto forte è stato quello tra il teatro e i mezzi di comunicazione di massa: il teatro si è infatti visto pian piano portare via il ruolo di predominanza in ambito artistico che da sempre gli apparteneva. Prima il cinema, poi ancora di più l’avvento della televisione e nell’ultimo periodo internet e i suoi derivati hanno portato le persone a preferire il confort di uno schermo dentro casa rispetto all’impatto di un’interazione con altri esseri in carne e ossa tra le mura di un teatro.

Uno dei primi istinti che ha avuto il teatro quando si è trovato a dover interagire con i mezzi di comunicazione è stato di rifiuto, almeno dal punto di vista ideologico.

Se da un lato stiamo assistendo a un inesorabile avanzamento nelle tecnologie legate alla comunicazione, dall’altro si assiste a un sempre più marcato desiderio di “ritorno alle origini” del teatro: si cerca di riportare il teatro alla sua dimensione più prettamente rituale, si cerca un teatro che non si adegui ai nuovi schemi, ma che anzi li neghi e se ne allontani, che infine cerchi i suoi propri mezzi espressivi.

Nonostante questo, teatro e comunicazione sono sempre stati legati, e il loro legame del tutto particolare ha portato a non poche innovazioni nell’uno e nell’altro campo.

Ritengo che uno dei primi personaggi che sia riuscito a esplicitare questo legame tra le due discipline sia stato un attore e regista statunitense: Orson Welles. Eclettico personaggio nato nel 1915 in una cittadina del Wisconsin, dopo una vita divisa tra USA ed Europa, tra teatro, cinema e radio, Orson Welles viene ricordato come uno dei più grandi registi del Novecento. E questo anche grazie alle sue idee fuori dagli schemi.

Era il 30 ottobre 1938 quando sulle frequenze radio della CBS andava in onda un programma recitato – quasi fosse la lettura di uno spettacolo teatrale – dal titolo “La guerra dei mondi”. La storia raccontata è quella di un fantomatico attacco alieno che avrebbe avuto luogo a Grover’s Mill, in New Jersey. Il format utilizzato da Welles e colleghi era quello di un normale radiogiornale dell’epoca. Il risultato? Diverse agenzie stampa nei giorni successivi hanno parlato di reazioni di vero panico tra i cittadini.

Le persone, abituate a sentire notizie considerate vere alla radio, non capirono che si trattava di finzione – sebbene la natura di finzione della lettura fosse stata annunciata prima dell’inizio della trasmissione – e credettero davvero a un’invasione aliena.

Quella che a noi contemporanei sembra un’idea geniale e molto ben realizzata – e che ha contribuito a mettere Orson Welles nell’Olimpo dei geni novecenteschi – all’epoca creò molto più scalpore del previsto: i mezzi di comunicazione di massa erano ancora a uno stadio poco sviluppato, e nessuno prima di Welles aveva mai pensato di farne un uso di questo tipo.

A mio parere la genialità – e anche l’utilità – di questo show è stata quella di mostrare praticamente un primo ma forte trait d’union tra teatro e comunicazioni di massa, dimostrando quanto questi due elementi possano fondersi, anche se a un prezzo molto elevato.

Non sarà sembrato che dicessi che il teatro è finito, vero? Ci sono dei grandi artisti che continuano a lavorarci, ma non è più collegato alla centrale elettrica principale. Il teatro resiste come un divino anacronismo: come l’opera lirica e il balletto classico. Un’arte che è rappresentazione più che creazione, una fonte di gioia e meraviglia, ma non una cosa del presente” (Orson Welles)

Erano quelli gli anni delle nuove forme di comunicazione, il mondo stava cambiando, stava prendendo una nuova direzione, anche se nessuno poteva ancora immaginare quale.

Trovo interessante il fatto che a cavalcare quei tempi sia stato un uomo nato da e nel teatro, sebbene molto critico nei confronti di questa forma d’arte.

L’analisi sui nuovi mezzi di comunicazione porta Welles ancora più lontano, fino ad arrivare a quello che viene considerato il suo capolavoro assoluto, Citizen Kane, non a caso tradotto in italiano “Quarto potere”. L’analisi della nuova comunicazione arriva con questo film a livelli mai raggiunti prima dal regista americano. Ancora una volta l’arte – anche se in questo caso si tratta di cinema anziché di teatro – è lo specchio attraverso il quale si guarda e si critica la società, che si stava riscoprendo all’epoca sempre più plasmata e plasmabile dai mezzi di comunicazione di massa.

Un’analisi degna di nota quella portata avanti da Welles, che è stato in grado, attraverso i suoi lavori, di portare alla luce un legame che sarebbe diventato fondamentale negli anni a venire.

Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico le menti di critici e studiosi non erano da meno: erano gli anni della riscoperta tardiva del pensiero di Artaud, gli anni in cui firmava i suoi primi lavori un bizzarro regista polacco che avrebbe rivoluzionato la concezione di teatro e il modo di farlo con i suoi lavori, le sue teorie e i suoi scritti.

Ed è proprio da Jerzy Grotowski che bisogna partire per capire da dove e come è nato il Terzo Teatro.

Grotowski si pone all’interno di una neonata tradizione che cerca di giungere a un rinnovamento del teatro che guarda indietro anziché guardare in avanti. Attraverso i suoi insegnamenti, attraverso i suoi spettacoli, Grotowski manda un messaggio di rinnovamento e di cambiamento rispetto al passato.

Poi Grotowski smette di fare spettacoli. E la cesura si fa sentire in tutto il mondo del teatro. E provoca un’onda d’urto che colpisce tutti coloro che all’epoca di teatro si stavano occupando.

Nella seconda fase del suo lavoro come regista, quella in cui dà alla luce i suoi spettacoli più famosi, da Akropolis a Il principe costante, Grotowski si basa su una concezione di teatro “povero”, intendendo con questo un teatro che non deve competere con i nuovi mezzi di comunicazione, primo fra tutti il cinema, in quanto una competizione “ad armi pari” avrebbe portato alla sconfitta del teatro. Bisognava quindi creare un teatro che non guardasse più al futuro, semmai al passato. (Per un teatro povero, J. Grotowski)

E fu proprio uno degli allievi di Grotowski a portare a degno compimento gli insegnamenti del maestro: la nozione di Terzo Teatro la si deve a Eugenio Barba, ex allievo del maestro polacco e fondatore dell’Odin Teatret e dell’antropologia teatrale.

La definizione di Terzo Teatro ha lo scopo principale di differenziare questa nuova pratica teatrale sia da quello che viene considerato il “primo teatro”, quello ufficiale, sia dal “secondo teatro”, l’avanguardia.

L’idea di Terzo teatro nasce dalla convinzione che il teatro per esistere abbia bisogno di persone, di un lavoro incentrato sull’attore. E qui, nelle tecniche di lavoro degli attori, nel training, si sente l’influenza di Grotowski.

Il manifesto del Terzo Teatro viene pubblicato nel 1976, con la firma di Eugenio Barba.

Quello di cui parla Barba è un teatro che non rientra più all’interno della vecchia dialettica tradizione – avanguardia, ma un teatro che guarda altrove.

Un teatro che guarda con particolare attenzione a Oriente, a quelle tradizioni teatrali che non soffrono – o almeno soffrono poco – dell’invadenza dei nuovi mezzi espressivi.

Teatri tradizionali, che mantengono viva la loro dimensione rituale.

Nel 1979, con la fondazione dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology), il lavoro di Barba si orienta ulteriormente in questa direzione.

Quello che si cerca è un teatro che sia lavoro per l’attore, che sia nuovo e che si basi sulla tradizione. In tutti i suoi anni di lavoro, l’ISTA ha contribuito a creare e diffondere una teatralità nuova e allo stesso tempo importante, un filone pratico e teorico che continua ad arricchirsi.

A prima vista questi due mondi – teatro e comunicazioni di massa – sembrano inconciliabili.

Non solo, si potrebbe quasi considerarli uno la nemesi dell’altro. Due mondi diversi e divisi, a volte in guerra, ma che combattono con armi diverse le loro battaglie, ognuno deciso a trovare la sua propria strada indipendentemente dall’altro.

Nonostante l’esperienza radiofonica di Welles, che sembrava aver creato una breccia attraverso cui questi due mondi potessero comunicare, la convivenza sembra difficile e piena di ostacoli.

Quarto potere e Terzo Teatro possono quindi comunicare tra loro ponendosi su un piano comune? Per ora la risposta sembra essere negativa, ma chissà che non arrivi un altro Orson Welles a farci cambiare idea.

Per concludere la rassegna sui festival – per lo più estivi – di teatro parlerò di un festival che si svolge nella nostra regione, e in prevalenza a Modena: il Vie festival, che giungerà quest’anno alla sua 14° edizione.

Il Vie festival nasce nel 2005 come evoluzione di un precedente progetto, “Le vie del festival”, a sua volta nato nel 1994, che si teneva ogni anno da ottobre a dicembre.

Entrambi i progetti nascono e vengono portati avanti da ERT, Teatro Nazionale dal 2015, che fin dalla sua fondazione ha da sempre manifestato grande interesse per la scena del teatro contemporaneo e internazionale. Solitamente programmato negli ultimi weekend di ottobre, quest’anno gli organizzatori del Vie ci faranno attendere un po’ più del solito: il festival è infatti programmato per marzo 2019. Considerando le ultime edizioni del festival però, è pressoché sicuro che l’attesa si rivelerà proficua.

 “L’idea di contemporaneità si coniuga immediatamente con quella di complessità, qualcosa che è in continuo movimento e veloce nella sua indeterminatezza” (dal Progetto del festival)

Il festival nasce per rispondere all’interesse dei suoi organizzatori verso tutto ciò che è contemporaneo, internazionale e, ovviamente, teatrale. La tendenza e l’interesse verso l’internazionalità, già presente e ben visibile in tutte le stagioni di ERT, diventa ancora più tangibile all’interno della programmazione di questo festival ormai ventennale. Fin dalla fondazione ERT si presenta come un nucleo attento sia – e principalmente – al teatro, sia al suo pubblico, sia infine al panorama internazionale, specialmente europeo: grande importanza viene infatti data a gruppi e compagnie provenienti dall’estero, alle loro idee e ai loro progetti. E questo non solo per quanto riguarda gli spettacoli: sono vari i progetti a cui il gruppo modenese aderisce che puntano ad accrescere il peso internazionale di ERT. Non ultimo, il progetto iniziato nel 2017, Atlas of transitions, che porterà ERT a essere protagonista di un vasto progetto di scambio con le realtà di vari altri stati.

Per quanto poi riguarda il Vie, negli anni si possono citare parecchi esempi di spettacoli che hanno portato compagnie estere a Modena e Bologna.

Guardando solo all’ultimo anno, risale all’edizione 2017 la messa in scena dello spettacolo “Chekhov’s first play”, del gruppo dublinese Dead Centre, per la prima volta in Italia, e di “Kamyon”, di Michael De Cock, regista e direttore artistico del KVS di Bruxelles.

Ma il Vie non si concentra soltanto su spettacoli internazionali: il festival è al contempo molto attento anche sul piano del legame con il territorio. Questo legame tra l’organizzazione del festival e le città in cui si svolge è molto forte, in primis per quanto riguarda gli spazi interessati dal festival: non solo vengono sfruttate le sale di ERT, ma molti altri spazi pubblici quali chiese, piazze, strade delle quattro città che vengono toccate dalla programmazione possono diventare luoghi legati al Vie. Queste quattro città sono Modena, Bologna, Vignola e Castelfranco Emilia, ognuna delle quali ospita una o più sedi di teatri ERT.

Il legame con il territorio però non viene costruito solo attraverso la presenza fisica del festival e delle rappresentazioni ad esso legate: questo legame viene coltivato anche e soprattutto con le persone, con gli abitanti delle città, che vengono chiamati in modo più o meno diretto a partecipare agli eventi promossi dall’organizzazione del Vie. Una politica culturale a mio parere molto interessante quella portata avanti dal Vie, che può così mescolare territorio e internazionalizzazione, identità e apertura. Oltre all’importante peso culturale di questo festival, che riesce a portare nello stesso luogo alcuni dei personaggi più affermati in ambito teatrale, ritengo che l’importanza del Vie derivi proprio dal fatto di riuscire a creare una comunità che si riunisce intorno al festival stesso. Una comunità unita e un sodalizio con le città che si riesce a rinnovare ogni anno.

Un modo in più, usato da ERT per affermare il suo peso culturale, ormai sempre più importante. Un modo per portare avanti l’idea del “teatro come valore”, un teatro contemporaneo, in grado di unire professionisti e pubblico provenienti da quasi tutta Europa e non solo. Un teatro “senza mura”, in grado di unire tutti coloro che vi partecipano.

Si è svolta durante il mese di luglio l’edizione 2018 del Napoli Teatro Festival.

Arrivato quest’anno alla sua undicesima edizione, il festival partenopeo ha portato nel capoluogo campano diversi importanti spettacoli, nazionali e non.
Un programma ricco che si è articolato tra italiani e internazionali, musica, danza e cinema, progetti speciali, laboratori, mostre e altro ancora.

In particolare, si sono poi svolti alcuni laboratori a mio parere degni di nota, tra cui il Laboratorio sull’attore tenuto da Punta Corsara – compagnia nata come progetto d’impresa culturale della stessa Fondazione Campania dei Festival; un laboratorio intitolato Le corps sauvageIl corpo selvaggio – a cura di Gilles Coullet; il laboratorio Mente Collettiva tenuto fra gli altri da Eugenio Barba.

Ritengo poi che alcuni degli spettacoli proposti assumano particolare rilievo.

Nella sezione Internazionali era presente il nuovo spettacolo di Thierry Collet, Dans la peau d’un magicien.

Il mago francese decide, questa volta, di mescolare ai numeri magici una storia da raccontare, la sua. Dalla scoperta della magia, ai primi esperimenti, fino al presente, quello che ci presenta Collet è un viaggio interiore che, attraverso la magia, ci permette d’indagare l’interiorità di un prestigiatore di professione. Un’idea a mio parere azzeccata, che permette di mettere in scena non il solito spettacolo di magia, ma di vedere la magia nella sua accezione più quotidiana e di indagare e magari capire il legame che intreccia con la vita quotidiana di coloro che la praticano, fino ad entrare a pieno diritto “nei panni di un mago”.

Anche un secondo spettacolo della sezione Internazionali si pone l’obiettivo di farci guardare a questioni che consideriamo “quotidiane” con occhio diverso. Lo spettacolo è Clown 2 ½, con la regia di Roberto Ciulli e prodotto da Theater an der Ruhr. Questo lavoro vuole far riflettere lo spettatore sulla vecchiaia.
Declassata da età della saggezza a età della debolezza, spesso la vecchiaia viene vista e vissuta come una serie di giornate sempre uguali, scandite da regole ferree e non modificabili.
Il cambio di punto di vista avviene qui grazie a un gruppo di clown: questi sono in grado di portare brio anche nel mondo della vecchiaia, così come hanno fatto durante tutto il corso della loro vita. Un modo innovativo per riflettere su una questione considerata poco importante, e per mostrare come tutto possa cambiare, se lo si vuole davvero.

Nella sezione riservata agli spettacoli a firma italiana del festival sono poi presenti 2 spettacoli che cercano di rileggere Shakespeare sotto la lente della contemporaneità.

Il primo spettacolo è Abitare la battaglia (Conseguenze del Macbeth).

 “[…] e se la liberazione non esistesse realmente? Se la liberazione fosse abbracciare la corruzione della mente e dell’animo, anziché allontanarsene, in uno slancio vitale che travolge tutto?” (dalla sinossi dello spettacolo)

Attraverso l’analisi della tragedia scozzese, quello che la drammaturga Elettra Capuano si propone di portare a termine è un’analisi del male e del modo di vederlo e di sentirlo in rapporto alla vita degli uomini. Un male che non viene purificato da nulla, che non ha speranza di giungere alla catarsi. Come a volerci dire che gli uomini compiono il male con il solo scopo di imprimere a fuoco la loro impronta sulla terra, prima di doverla lasciare senza aver realmente concluso nulla.

Il secondo spettacolo è Who is the king. In questo caso la rivisitazione è più massiccia, quanto meno a livello di struttura: il progetto di Lino Musella, Andrea Baracco e Paolo Mazzarelli mira a interpretare i drammi storici di Shakespeare all’ombra delle moderne serie televisive.
Un’idea che può sembrare bizzarra a primo impatto, ma che tuttavia ha il pregio di dare continuità alla storia dei re narrati da Shakespeare. Una storia che non parla di redenzione, semmai di dannazione: partendo dal mite Ricardo II, attraverso le vicende di Enrico IV, Enrico V ed Enrico VI si giunge alla vicenda sanguinario re Riccardo III.
Una storia divisa in quattro “episodi”, che segue appunto lo schema delle moderne serie, che è in grado di raccontare, attraverso le parole del Bardo, la controversa storia del popolo inglese.

Ritengo che in questa edizione da poco conclusa il festival di Napoli sia stato in grado di mostrare e farsi portatore di idee e realtà diverse, di dimostrare che non esiste un solo punto di vista e che la contemporaneità può essere molto più complessa di quello che si pensa.

Il nuovo mondo si presenta a noi tra la globalizzazione – con la sua utopia di una comunità umana pensata soprattutto sugli scambi – e il suo opposto […]” (Monique Veaute, Presidente Fondazione Romaeuropa)

Ormai arrivato alla sua 33° edizione, il Romaeuropa Festival avrà luogo quest’anno tra il 19 settembre e il 25 novembre in vari teatri e luoghi all’aperto della capitale. In linea con la tendenza dei festival di questo 2018 anche il festival romano avrà come tema – e missione – l’incontro tra mondi diversi, apparentemente incapaci di comunicare, ma che possono essere uniti dalla cultura. E in particolare dallo spettacolo dal vivo.

Un obiettivo importante e gravoso quello che si prefigge il festival, un’operazione non scontata che cerca di dimostrare come il mondo stia tornando indietro invece di andare avanti. E questo processo viene raccontato partendo dai muri: così come la caduta del muro di Berlino aveva dato speranza – come afferma Monique Veaute, Presidente Fondazione Romaeuropa – così i nuovi muri che vengono costruiti ci fanno ricadere nell’ombra delle divisioni e dell’assenza di un progetto comune.

La difficoltà del progetto non sta fermando gli autori, e il festival di quest’anno si preannuncia di alto livello: compagnie e artisti provenienti da tutti i continenti e un programma pieno di novità per mostrare al pubblico che si recherà nella Città Eterna che la diversità c’è, esiste e va preservata, non temuta.

La strada che imboccherà il festival è in realtà già stata percorsa: la programmazione 2018 seguirà infatti le orme di uno dei più importanti e influenti uomini di teatro europei del secondo Novecento, Peter Brook.

 Enfant prodige nella Londra di metà secolo, Peter Brook è riuscito a collaborare con i più grandi maestri dell’epoca, a mettere in scena spettacoli di ogni genere, e tutto in giovane età. La sua attività di riformatore inizia più tardi, con il trasferimento a Parigi e la riscoperta della sua “africanità”. In seguito a un viaggio in Africa compiuto tra il 1972 e il 1973 insieme agli attori della Royal Shakespeare Company (nata su influenza dello stesso Brook) egli è riuscito a sdoganare i pregiudizi teatrali che colpivano il continente africano, e a dimostrare che a differenza delle apparenza l’Africa è un luogo ricco di teatro, sebbene con modalità estranee al mondo occidentale. Con questo viaggio egli è riuscito a dimostrare che il luogo comune di un’Africa senza teatro era non solo falso, ma si basava sul pregiudizio culturale che riconosce come teatro solo quello che viene fatto in Europa. Brook non solo ha scoperto le forme della teatralità africana, ma le ha fatte sue e le ha riportate a casa con sé. Tornato a Parigi egli ha dedicato la sua vita artistica alla creazione di spettacoli intrisi della poetica teatrale africana, e ha fatto quindi dell’abbattimento delle barriere artistico-culturali il punto di partenza della sua arte.

Il Maestro – ormai più che novantenne – torna al REF e porta il suo ultimo spettacolo. The prisoner, con la regia di Brook e Marie-Hèlène Estienne, si presenta come uno spettacolo semplice, che racconta una storia apparentemente telegrafica ma che al contempo lascia spazio a importanti sviluppi. È la storia di una prigione in una regione desertica, e di un uomo che, dall’esterno, la osserva. Una storia che lascia aperti molti punti interrogativi, sulle identità e le storie dell’uomo e dei detenuti, che solo la visione dello spettacolo potrà sciogliere.

È anche uno spettacolo perfettamente in linea con la programmazione del REF, uno spettacolo che parla di muri apparentemente impossibili da attraversare, ma che forse le storie degli uomini sapranno scavalcare.

Il Romaeuropa è un festival che, anche per via della lunghezza della programmazione, ha la possibilità di metter in scena spettacoli diversi, per genere e forma, ma che siano in grado di avere un impatto. Guardando gli spettacoli in programmazione in questa edizione penso che l’impatto sarà forte. E non solo per la qualità degli spettacoli, ma per la storia che raccontano, per l’idea che sta alla base della scelta di questi spettacoli.

Parlare di muri oggi è a prima vista scontato, lo si fa quotidianamente sulle prime pagine dei giornali e in quasi tutti i programmi di attualità. Ma trasformare questa riflessione sui muri in un progetto culturale è qualcosa che non viene fatto spesso. E credo sia proprio questo il punto forte del REF: non solo trattare un tema, ma farlo diventare un atto di cultura, farlo diventare una riflessione che coinvolge l’arte e le arti, farlo diventare il motore di quasi due mesi di programmazione.

Nelle parole di Fabrizio Grifasi, Direttore Generale e Artistico della Fondazione Romaeuropa:

Perché è sull’esasperazione delle differenze rappresentate in questo momento come insormontabili e quindi da rifiutare che si articola la visione apocalittica di un ritorno a una purezza immaginaria e perduta, eppure in aperta contraddizione con la frenesia degli iperscambi e dell’overload comunicativo, a cui opponiamo un percorso ragionato e sensibile, dove le contraddizioni sono una sfida, senza nascondersi le paure, i fallimenti e le fragilità che agitano il presente che viviamo, offrendo il nostro festival come ambito di ritrovo per chi rivendica leggerezza e pensiero nella sobrietà dei colori dell’autunno

Defying the norm since 1947” (Slogan EdFringe)

Dal 3 al 27 agosto si svolgerà quello che è forse il più grande festival teatrale al mondo. Nato nel 1947 per rispondere all’esigenza di rinnovamento in ambito culturale all’indomani della Seconda guerra mondiale, il fringe di Edimburgo dimostra fin da subito il suo potenziale, diventando in poco tempo il principale portavoce di quel cambiamento che aveva portato alla sua nascita.

Tutto è cominciato con 8 compagnie che – spontaneamente e senza nessun tipo di accordo – si sono incontrate a Edimburgo per fare arte. Il fringe è poi cresciuto tanto da diventare la più grande piattaforma di scambio artistico attualmente esistente. Il festival continua a essere organizzato ogni anno durante il mese di agosto. Tre settimane durante le quali ogni angolo della città diventa un possibile palcoscenico “per chiunque abbia qualcosa da dire”. Artisti provenienti da tutto il mondo si trovano nella città scozzese per dare vita a uno dei più grandiosi eventi a cielo aperto delle estati europee.

Spettacoli di strada, musica, giocoleria, performance e teatro (al chiuso) si incontrano e imparano a conoscersi sotto gli occhi del pubblico internazionale del festival.

Ma quello di Edimburgo non è un festival come gli altri. La denominazione fringe porta con sé un significato molto importante: una particolare categoria di festival teatrale che, come gli altri, non contempla solo spettacoli, ma teatro di strada, giocoleria, musica, tutto in un regime di libertà assoluta che crea un’atmosfera di inclusione a tutto tondo.
La differenza – che è anche la caratteristica più importante dei fringe – è quella di dare visibilità a chiunque: non ci sono barriere, gli artisti accolti possono essere professionisti affermati così come giovani alle prime armi. L’obiettivo di questo tipo di festival metropolitano è di permettere a chiunque voglia fare uno spettacolo di poterlo fare in un regime pienamente democratico. Durante un fringe non esistono diversi livelli di importanza: tutti gli artisti sono considerati uguali, e a tutti vengono date le stesse opportunità, a livello di spazi e di pubblico.

Il titolo dell’edizione di quest’anno, “Into the unknown”, lascia già intuire quale sarà lo stile di questo fringe. L’edizione 2018 del festival si presenta come un viaggio verso ciò che non conosciamo. Grazie a migliaia di spettacoli di ogni tipo, dal teatro parlato al musical, dalle performance di strada alla commedia, il fringe accompagnerà i suoi spettatori in un viaggio verso e attraverso lo sconosciuto, verso tutto ciò che non ci si aspetta. Gli organizzatori del festival ci invitano a “fare un salto nello sconosciuto”, a farci avvolgere da questa atmosfera di suspense e meraviglia.

Il salto “into the unknown” che promuove il festival non è solo a livello personale, ma anche a livello artistico: l’immensa varietà di spettacoli proposta dal festival e le politiche di accesso che danno la possibilità a tutti di fruire gli spettacoli in cartellone permettono agli spettatori di vedere spettacoli che forse non appartengono al loro orizzonte culturale. Magari si troveranno a contatto con forme artistiche che non avevano mai nemmeno immaginato, ma che qui potranno vedere semplicemente passeggiando lungo il Royal Mile.

Penso che questo aspetto sia uno dei più importanti del fringe di Edimburgo: mettere l’arte a portata di tutti è un’operazione importante, e purtroppo non scontata. In un momento in cui l’arte sta soffrendo per carenza di fondi e di pubblico, dare la possibilità a un pubblico incredibilmente ampio di partecipare a spettacoli così diversi è quasi un atto rivoluzionario.
La libertà del fringe, inoltre, è totale anche per gli artisti: non esiste nessun comitato che decide chi può e chi non può partecipare. Tutti coloro che hanno un progetto e un luogo disposto ad ospitarli, hanno anche la possibilità di mettersi in scena, siano essi professionisti affermati o giovani che stanno cercando la loro strada.

Il salto che gli organizzatori del festival ci chiedono di fare è forse quello che tutti noi dovremmo fare nella quotidianità: un salto che forse porta a situazioni che non conosciamo e che non ci appartengono, ma dalle quali è sempre possibile imparare qualcosa. Fare questo salto significa – da un punto di vista artistico e non – aprire la propria mente a tutto quello che ci sta intorno, che sia vecchio o nuovo, di nostro gusto o no, conosciuto o sconosciuto. E promuovere questa apertura mentale attraverso l’arte, in particolare il teatro è ancora più importante: in questo modo si può dimostrare che attraverso l’arte si può arrivare da qualche parte, si può ancora costruire qualcosa. Far riemergere il lato più democratico dell’arte, quello che mette tutti gli artisti sullo stesso piano – il piano di chi vuole esprimere sé stesso in qualsiasi forma immaginabile – è un modo per affermare in linea più generale l’importanza dell’arte, uno dei pochi mezzi ormai in grado di creare un’unione fra i gruppi più diversi.

We believe that everyone, irrespective of their background, should have the opportunity to experience and express themselves through creativity” (Dal programma 2018 del Fringe)

[“Crediamo che chiunque, a prescindere dal suo background, dovrebbe avere l’opportunità di mettersi alla prova ed esprimere sé stesso attraverso la creatività”]

“Avignon, c’est également un esprit : la ville est un forum à ciel ouvert, où les festivaliers parlent des spectacles et partagent leurs expériences de spectateurs. Un mois durant, tous peuvent avoir accès à une culture contemporaine et vivante.” (dal Progetto artistico del Festival)

[“Avignone è anche uno spirito: la città è un forum a cielo aperto dove i partecipanti al festival parlano degli spettacoli e condividono le loro esperienze come spettatori. Durante un mese tutti possono avere accesso a una cultura contemporanea e viva”]

Nato nel 1947 grazie a Jean Vilar, il Festival teatrale per eccellenza è giunto quest’anno alla sua 72° edizione. Teatro, musica, danza e arti plastiche prendono possesso della città francese ogni anno a luglio per animare gli spazi storici – e non solo – della città con una proposta artistica di tutto rispetto.

Ogni anno solo circa 40 gli spettacoli proposti durante il festival. Oltre a questi mostre, concerti, letture, cinema, momenti d’incontro rendono la Città dei Papi uno dei maggiori crocevia di scambio internazionale e interculturale. Fra gli spettacoli inoltre, molti sono prime su suolo francese, il che contribuisce a alzare il livello della proposta artistica del festival. Spettatori che vengono non solo da Avignone e Parigi ma da tutto il mondo si ritrovano ogni anno nella Città dei Papi per prendere parte agli eventi del Festival, per assistere agli spettacoli e per immergersi nell’atmosfera di uno dei più importanti festival di arti dal vivo al mondo. Anche i luoghi deputati ad accogliere gli spettacoli del festival non sono da meno: edifici storici, chiostri, corti, teatri al chiuso così come teatri all’aperto, fino al luogo per eccellenza, la corte d’onore del Palazzo dei Papi.

Durante il mese del festival l’intera città di Avignone si trasforma per accogliere artisti, spettatori, giornalisti o semplici curiosi. Si viene a creare un ambiente unico, magico, di scambio e di arte a tutto tondo. Avignone diventa una “città-teatro”, in cui tutto e tutti ruotano intorno al festival, alle possibilità che questo offre e alle magie che rende possibili.

Non solo spettacoli “classici”, ma danza contemporanea, atelier, teatro sociale, presentazioni e altre iniziative possono essere fruite all’interno del festival. Nella programmazione 2018 l’attualità è molto presente, attraverso tutte le modalità appena elencate.

È presente come spettacolo attraverso il lavoro del regista Richard Brunel, “Certaines n’avaient jamais vu la mer”. Questo spettacolo, adattamento teatrale del libro di Julie Otsuka, “Venivano tutte per mare”, narra la tragedia di centinaia di donne giapponesi che, negli anni ’20 del ‘900, venivano mandate in America con la speranza di potersi rifare una vita. Il testo – così come la pièce teatrale – narra del loro disincanto una volta giunte su suolo americano: ad attenderle non c’è la terra dell’oro, ma solo un’altra invisibile esistenza.

Anche la danza si presenta come modo per parlare di attualità. “Saison sèche”, realizzato da Phia Ménard tratta il tema del corpo attraverso la realizzazione di uno spettacolo di danza contemporanea. I comportamenti umani sono di grande interesse per questa artista, che già da anni li indaga attraverso un ciclo di spettacoli non ancora terminato. Fin dal 2008 – anno in cui l’artista termina il suo processo di transizione da uomo a donna – l’interesse per il corpo e per i suoi comportamenti diventano una costante per la danzatrice francese. In questo spettacolo in particolare si può assistere alla lenta nascita di un rituale, a una sorta di nuova poesia che va rafforzandosi e che permette agli spettatori di vivere un’esperienza quasi fisica e reale.

Nella programmazione del festival si può poi trovare uno spettacolo di teatro-carcere diretto da Olivier Py, dal 2013 alla guida del Festival d’Avignon. Il suo interesse e il suo lavoro nell’ambito del teatro-carcere hanno portato alla nascita di una lunga e costante collaborazione tra il Festival e i detenuti del Centro penitenziario di Avignon – Le Pontet. L’atelier diretto da Py con la collaborazione di Enzo Verdet ha portato alla messa in scena di vari spettacoli classici: il “Prometeo incatenato” di Eschilo, “Amleto” di Shakespeare e, in questa edizione del festival, “Antigone” di Sofocle. Recuperando il dramma dei figli di Edipo e il dramma di Antigone che, sola contro tutti, decide di seppellire il fratello, Py e Verdet – e i detenuti-attori che hanno partecipato all’atelier – vogliono mandare un messaggio a tutti gli spettatori, e cioè “quest’idea che un uomo resta un uomo, qualsiasi cosa abbia fatto”.

L’attualità resta protagonista del festival anche tramite incontri pubblici e seminari, come ad esempio “Des faites, des fakes: la jeunesse face à l’info” (“Fatti e fake: i giovani e l’informazione”). Un incontro aperto che ha l’obiettivo di parlare delle minacce delle fake news nel mondo dei social, e come i giovani frequentatori possono proteggersi e difendersi da questa realtà ormai sempre più radicata nella quotidianità. Un incontro promosso dal Sindacato nazionale dei giornalisti che – nel centenario della sua fondazione – si impegna per preservare la verità dell’informazione.

Un’edizione densa di spettacoli ed eventi quella che si è appena chiusa ad Avignone. Un’edizione che ha fatto i conti con tanti temi legati all’attualità e che ha dato la possibilità a quanti si sono trovati a passare per le strade della città di guardarsi intorno con spirito critico. Un festival che – nonostante la sua importante storia – non resta ancorato al passato ma ha sempre un occhio al presente e al futuro del teatro e che è in grado di porsi come sorta di apripista per le novità e i nuovi modi di vedere l’arte teatrale e non solo.

Un festival che permette di confrontarsi con sé stessi e con gli altri, con la storia e con il presente.

Nato nel 1971 sull’onda dei movimenti originatisi a partire dal ’68, il Festival di Santarcangelo – originariamente Festival Internazionale del Teatro in Piazza – si afferma sin dalla prima edizione come un festival nuovo, fuori dalle righe e al passo coi tempi.

Le ideologie sessantottine spingono l’allora direttore artistico, Piero Patino, a creare un festival politicizzato, che mettesse insieme l’ideologia e il folklore, le grandi tematiche e i cittadini.

Da quel momento, quello che ogni anno si sviluppa a Santarcangelo, è un festival all’avanguardia, attento alle istanze nazionali e internazionali che riguardano le arti e il teatro: dalla nascita del Terzo Teatro di Eugenio Barba, alle teorizzazioni di Grotowski, fino al Living Theatre. E tutto sotto il segno di Artaud.

Il festival si trova a cavalcare l’onda dell’attualità e dell’avanguardia del secondo Novecento come mai nessuno era stato in grado di fare in Italia, e si ritrova anche nella posizione di rappresentare una grande opportunità di incontro tra persone, artisti e generazioni, che sul terreno del festival sono libere di manifestare la propria arte. Questa linea si riflette anche e soprattutto nei nomi degli artisti chiamati a partecipare la festival in questi anni.

La paura – o la costante fuga dalla paura – è la condizione più pervasiva della contemporaneità” (Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino)

La 48° edizione del Festival di Santarcangelo è stata incentrata su questo tema: la paura. Sebbene non sia spesso citato, questo sentimento si sta facendo sempre più spazio nel nostro quotidiano: abbiamo paura di quello che sappiamo, di quello che non sappiamo e di quello che pensiamo; abbiamo paura di ciò che è lontano e di ciò che è vicino; abbiamo paura del diverso, ma a volte anche di ciò che è troppo simile. Al festival è stata trattata in particolare la dimensione politica della paura, o meglio, le ripercussioni sul piano politico inteso in senso lato che la nostra paura crea, il modo in cui essa modifica le nostre vite, il nostro modo di rapportarci con quanto ci sta intorno e con ciò con cui ci identifichiamo.
Gli spettacoli presentati in questa edizione del festival avevano proprio lo scopo di indagare la paura che è insita in tutti noi. Pur trattando il tema da prospettive e tramite espedienti diversi, tutti gli spettacoli presentati hanno a che fare con una specifica sfumatura di questo sentimento.
Dalla paura di genere, alla paura di ciò che è diverso, fino alla paura dei boschi di notte – idea forte del festival – tutto ciò è stato trattato all’interno di questa edizione, che ha voluto lasciare i partecipanti “col cuore in gola”.

Una performance in particolare penso abbia trattato il tema in maniera estremamente efficace.

Your word in my mouth, questo il titolo della performance firmata Anna Rispoli, Lotte Lindner&Till Steinbrenner.

Una performance che – grazie alle parole di persone vere – permette a chi partecipa di confrontarsi molto da vicino con le nostre più intime paure. Nove persone, nove interviste condotte lungo l’arco di diversi mesi in vari quartieri della città di Bruxelles. Nove persone che non si sono mai confrontate tra di loro, e che spesso non si sono nemmeno conosciute. Ma tutte guidate dalle abili mani della regista, Anna Rispoli. Il tema, o piuttosto il pretesto, è l’amore. I vari tipi di amore. Un dialogo impossibile che ha portato questi nove intervistati a mettersi a nudo e a mettere a nudo la loro personale concezione dell’amore inteso in ogni sua sfaccettatura. Ma l’amore in certi momenti lascia il posto a tanto altro: politica, integrazione, esperienze, disaccordi, religione, e tutto quanto possa ruotare intorno alla vita di questi nove individui. Non sono tuttavia costoro a narrarci le loro vicende. Siamo noi. Nove persone tra il pubblico, una volta preso posto, si trovano davanti un copione chiuso. Davanti a loro una targhetta con un nome: Jean-François, Ella, Philippe, Princesse, Ivo, Tahel, Ines e suo fratello, David. A questi il compito di seguire il copione e di leggere all’impronta le parole pronunciate nel corso delle interviste – spesso da solo a solo – con l’autrice. Un sapiente lavoro di montaggio permette di far dialogare fra loro queste persone che non si sono mai viste ma che hanno avuto la possibilità di scambiarsi domande e risposte attraverso la Rispoli. Un dialogo impossibile che diventa possibile nel momento stesso in cui viene letto da nove persone sedute intorno a un tavolo; ed è come se in questo modo i nove protagonisti originari – sebbene a distanza di centinaia di chilometri e di mesi – si potessero incontrare per la prima volta.

Ritengo che il merito di questa performance sia di dimostrare a quanti partecipano che forse la paura non è solo quella dei boschi di notte.

Forse la paura è anche quella di vedersi nei panni di uno sconosciuto, di capirlo e di diventarlo per un paio d’ore. Paura dell’empatia che può farci scoprire nuovi lati di noi stessi che non abbiamo mai visto – o che forse non abbiamo mai voluto vedere.
Penso però che il messaggio più forte dello spettacolo si sveli solo alla fine, quando a ogni lettore viene chiesto di pronunciare il proprio nome – quello vero – e in quel momento, dopo aver alzato gli occhi ed essersi guardati intorno un po’ imbarazzati, ci si trova insieme a tutti coloro che hanno preso parte alla performance; quando il primo istinto è quello di dire “quello non ero io, quello che ho letto non mi appartiene”, ma con la consapevolezza che in fondo, forse, un po’ quel personaggio lo si è stati.

Un’edizione 2018 che ha permesso ai partecipanti del festival di mettere a nudo sé stessi e di potersi confrontare con i propri fantasmi – reali o metaforici – in una cornice sempre pittoresca e poetica come quella del borgo di Santarcangelo. Due settimane di riflessione, di sfide e di risultati, che hanno permesso ad artisti e pubblico di guardarsi intorno e, forse, di avere un po’ meno paura.

Ha preso il via venerdì 29 giugno la 61° edizione del Festival di Spoleto, che si concluderà il 15 luglio.

Nato nel 1958 grazie al compositore Gian Carlo Menotti il Festival dei Due Mondi è oggi uno dei più reputati a livello nazionale. Parte della sua importanza è dovuta al fatto che si tratta di un festival “totale”, che non prende in considerazione una sola tipologia artistica. Teatro, musica, danza, opera, ma anche eventi e arti visive sono i veri protagonisti di questo festival che si snoda attraverso le vie della piccola città di Spoleto trasformandola in un luogo d’incontro e di scambio.

Come ogni anno grandi artisti si alternano sui palchi di teatri, palazzi e parchi di Spoleto per animare le giornate del festival: Romeo Castellucci, Franco Branciaroli, Corrado Augias, Robert Carsen, Francesco de Gregori, Alessandro Baricco e, presente quest’anno per la prima volta, Marion Cotillard, sono solo alcuni dei nomi che Spoleto vede sfilare quest’anno.

Ma, come già detto, il Festival dei due Mondi prevede anche eventi e una sezione riservata alle arti visive. In particolare, per l’edizione 2018 è stata installata una mostra a tema scientifico dal titolo “Il mistero dell’origine. Miti Trasfigurazioni Scienza”, che resterà aperta per tutta la durata del festival.

Ma non è solo la scienza la protagonista degli eventi del festival di Spoleto. Anche il teatro-carcere torna in scena quest’anno con lo spettacolo “NESSUNO torna ad Itaca ‘Si non se noverit’”, prodotto da Sinenomine e con la partecipazione dei detenuti della Casa di Reclusione di Maiano di Spoleto. Per quanto riguarda la programmazione più strettamente teatrale del festival 2018, sono a mio avviso parecchi gli spettacoli degni di nota. Iniziando con “The beggar’s opera”, scritto da John Gay e qui riadattato dal regista Robert Carsen. Quella che viene considerata la prima commedia musicale della storia torna a parlarci di temi ancora attuali come ineguaglianza sociale, politici corrotti e cinismo.

Torna anche Romeo Castellucci con “Giudizio. Possibilità. Essere.”, spettacolo prodotto dalla Socìetas. Lo spettacolo si presenta come una rilettura dell’opera “La morte di Empedocle” di Friedrich Hölderlin. Luogo di rappresentazione: una palestra. Sebbene il luogo possa sembrare a primo impatto poco consono alla poesia che si andrà ad ascoltare, l’intento di Castellucci nello scegliere questo luogo è proprio quello di portare nel presente l’opera del poeta tedesco, e situare la rappresentazione in un luogo non teatrale sembra essere il modo giusto. Quella che si snoda davanti agli occhi degli spettatori ha quasi l’aria di essere la prova di un giovane gruppo di ragazze. Dietro, invece, l’esperienza e la sapienza teatrale di Castellucci si ergono a garanzia della riuscita dello spettacolo che – sfidando tutti i canoni del teatro “ufficiale” – promette ancora una volta di riuscire a parlare e toccare gli spettatori.

Anche Alessandro Baricco sarà parte integrante di questa edizione del festival. L’acclamato attore porta in scena la lettura di un suo testo, Novecento. Uno spettacolo che non sarà quindi recitato, ma solo ed esclusivamente letto.

Andrà in scena l’ultima sera del festival – il 15 luglio – l’opera che vede come protagonista Marion Cotillard. L’attrice francese sarà protagonista di un’opera in musica, con la regia di Benoît Jaquot, che racconta gli ultimi istanti di vita di Giovanna d’Arco. “Jeanne d’Arc au bûcher”, questo il titolo dell’opera che segna la prima partecipazione dell’attrice al Festival di Spoleto. Questo spettacolo precipiterà ancora una volta gli spettatori nel mondo e nella storia di una fra le prime eroine della storia, ancora capace di ispirare e far parlare di sé.

Questi sono solo alcuni dei molti titoli che si alterneranno sui palchi del Festival. La ricca programmazione promette anche quest’anno di rendere il festival indimenticabile. La realtà e l’immaginazione si incontreranno ancora una volta tra le strade della cittadina umbra per offrire a partecipanti e spettatori un affresco magico e coinvolgente, sotto il segno dell’arte intesa in ogni sua declinazione. Due settimane per mostrare la convivenza di Due Mondi paralleli ma che forse, in realtà, possono ancora incontrarsi.

La scommessa resta rischiosa, ma ritengo che anche quest’anno il Festival ci mostrerà come vincerla.

“Custodi della memoria, promotori di cultura”

Questa dicitura si trova – fra le altre – sul sito dell’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) di Siracusa, fondazione che ogni anno organizza un festival completamente incentrato sul dramma antico di epoca greca. Un festival che guarda alle origini del teatro, a quei luoghi, a quelle opere che hanno fatto nascere e hanno portato alla luce la bellezza del teatro, e che continuano a ispirare teatranti di tutto il mondo ancora oggi. Le vere opere classiche, intramontabili, che sanno ancora parlarci dopo secoli dalla loro prima rappresentazione.

Arrivato quest’anno alla sua 54° edizione, il festival si presenta con una programmazione degna di nota che coinvolge alcuni fra gli attori e i registi attualmente più importanti del panorama nazionale e internazionale.
L’edizione 2018 – iniziata il 10 maggio e che si concluderà il 18 luglio – vede in scena tre opere scritte da tre fra i più grandi autori di lingua greca.
Gli spettacoli messi in scena sono: “Edipo a Colono” di Sofocle, con la regia di Yannis Kokkos; “Eracle” di Euripide, per la regia di Emma Dante; “I cavalieri” di Aristofane, con la regia di Giampiero Solari.
Questa edizione ospiterà inoltre alcuni eventi speciali, come “Conversazione su Tiresia”, scritto e interpretato da Andrea Camilleri, con la regia di Roberto Andó; “Le rane” di Aristofane, con protagonisti i comici Ficarra e Picone, e con la regia di Giorgio Barberio Corsetti; “Palamede”, di e con Alessandro Baricco e Valeria Solarino.

Contemporaneamente al festival “vero e proprio” si sviluppa inoltre una rassegna parallela, l’INDA giovani, iniziata il 12 maggio e conclusasi l’11 giugno. Giunta quest’anno alla 24° edizione, la rassegna dei giovani vede impegnati studenti provenienti da tutto il mondo che portano a Siracusa le loro riletture delle opere sacre della mitologia greca.
Scuole superiori, così come classi universitarie provenienti da ogni dovesi ritrovano a Siracusa per confrontarsi tra loro e con il pubblico sui temi dei grandi autori greci e per mettersi alla prova come attori e registi, portando sul palco adattamenti nuovi, pensati e creati da loro.

Importante è anche per la rassegna il carattere internazionale: non solo confronto sulle opere, ma anche un confronto fra culture chiamate a rileggere, ognuna con il suo retaggio e le sue esperienze, i testi classici su cui gran parte delle culture si basano. L’attenzione ai giovani e al futuro del teatro si manifesta a Siracusa anche grazie all’Accademia d’arte del dramma antico, che forma giovani attori che saranno i futuri grandi interpreti delle opere portate al festival.

Nel concept del festival 2018, a cura di Luciano Canfora, si legge: “Perché la metafora del potere è metafora della vita stessa, è apologo morale che ci obbliga a riflettere sulla precarietà della sorte umana, sulla sua mutevolezza imperscrutabile e spesso irragionevole. Intorno a questa riflessione si aggrovigliano i nodi esistenziali degli eroi – positivi e negativi – della tragedia greca”.

I tre spettacoli sopra menzionati che vanno in scena quest’anno sul palco del festival, infatti, sono collegati da un filo rosso che conduce fino al tempo presente: il potere. Questo è infatti il tema principale dell’edizione 2018 del festival, il potere in tutte le sue sfaccettature più negative, ma anche più realistiche. In particolare, attraverso queste opere si indaga il modo in cui il potere agisce e plasma le vite dei tiranni, dei cittadini e di tutti coloro che si trovano a fare i conti con questa entità che da secoli governa il mondo – a volte a discapito degli uomini stessi.

Due tragedie e una commedia che si fanno beffe di eroi, popolo, tiranni e Dei.

Partendo dalle lotte per il potere dei due figli di Edipo, la cui vicenda sfocerà in una delle tragedie più conosciute di Sofocle, Antigone, emblema dell’opposizione fra potere e giustizia; passando per il potere di rendere pazzi, tema trattato nell’Eracle di Euripide, in cui a farla da padrone sono gli Dei, i loro crucci, le loro antipatie e infine il loro immenso potere di cambiare la sorte degli uomini; per poi arrivare alla dissacrante commedia di Aristofane, in cui un Popolo personificato si trova a dover scegliere fra un servo e un salsicciaio – emblema della bassezza – in uno scontro fatto di bassa demagogia e insulti. Inaspettatamente, almeno in questa commedia, alla fine il Popolo dimostra la sua intelligenza e, grazie a un sortilegio, si unisce alla bella Tregua, con cui può vivere una vita tranquilla. Un tema particolarmente attuale e che, a mio parere, ben si adatta alla quotidianità, che sembra aver dimenticato gli insegnamenti degli antichi. Una critica sferzante che ha attraversato i secoli grazie alle parole dei maestri del teatro e che continua ancora oggi a farci riflettere e a dimostrarci che la storia – volenti o nolenti – si ripete, e che nulla è mai cambiato davvero.

Ed è così che eroe e antieroe diventano facce della stessa medaglia e della stessa persona, ed è così che nella tragedia greca il tiranno diviene figura titanica nella sua grandezza, il cui prestigio e potere si ritorcono anche, anzi soprattutto, contro sé stesso: persino al di là della sua stessa volontà” (L.C.)

La prossima rivoluzione dovrà necessariamente mettere fine al nostro intero business teatrale, è inevitabile […]” (R.W.)

Bayreuth è una cittadina di circa 67 km2 dell’Alta Franconia, in Baviera. Questa piccola città è sede di uno dei più antichi e importanti festival europei: il Festival Wagneriano.

Organizzato dallo stesso Wagner per la prima volta nel 1876, il festival continua ancora oggi a mettere in scena ogni estate il repertorio del famoso compositore. Wagner inizia a pensare alla realizzazione di questo festival già a partire dal 1850. Inizialmente concentrato su città più conosciute, alla stregua di Weimar o Monaco di Baviera, è solo nel 1871 che, per un caso quasi fortuito, il compositore scopre la cittadina di Bayreuth.

Ma la nascita di quello che oggi è considerato un festival di importanza sovranazionale non è stata semplice come potremmo immaginare. Nonostante Wagner avesse iniziato a pensare a un’idea di festival già nel 1850, è solo a partire dagli anni ’70 dell’Ottocento che questa idea inizia a prendere piede. Rientrato dall’esilio, il re Ludwig II commissiona a Wagner un festival da tenersi nella città di Monaco. L’architetto designato è Semper.

Wagner tuttavia cerca di mantenere un controllo capillare su tutti gli aspetti della progettazione. È su consiglio di Hans Richter che nel 1871 il compositore visita per la prima volta la città di Bayreuth, dove si trova un antico teatro, il Teatro dell’opera dei Margravi.

Ed è proprio in questa cittadina che, insieme all’architetto Otto Brückwald, Wagner inizia a costruire il suo teatro nel 1872. La costruzione, tuttavia, non procede liscia come Wagner avrebbe voluto: continui problemi finanziari sorgono a rallentare e minacciare la buona riuscita dell’impresa. Sono solo i prestiti ricevuti da personalità di spicco (poi saldati dalla famiglia Wagner) che permettono la buona riuscita del progetto.

Nel 1876 il teatro è finalmente pronto, e il 13 agosto di quello stesso anno prende il via la prima edizione del Festival. Contro ogni aspettativa, questa prima edizione si rivela un disastro, e il Festival chiude con i conti in rosso. Per 6 anni il Festival rimane vuoto, ma Wagner non si arrende: grazie all’appoggio della città di Monaco riesce a ripartire, e, nonostante l’inizio poco promettente diventa il Festival che conosciamo oggi.

La principale novità introdotta da questo festival è proprio la struttura del teatro all’interno del quale vengono rappresentate le opere. Il teatro infatti è estremamente diverso da quelli costruiti fino a quel momento. Fedele al suo progetto di realizzare la Gesamtkunstwerk – l’“opera d’arte totale” – Wagner progetta una sala che guarda all’origine del teatro, agli antichi anfiteatri classici.

L’obiettivo primario di Wagner era quello di far sì che l’attenzione del pubblico si concentrasse non tanto sull’orchestra e sulla musica, ma che il fulcro dell’attenzione diventasse il palcoscenico, l’azione rappresentata. L’orchestra viene quindi spostata in una “buca” e resa completamente invisibile agli occhi degli spettatori. Anche la sistemazione del pubblico subisce non poche modifiche: la struttura ad anfiteatro comporta una sistemazione ascendente dei posti. Vengono inoltre eliminati i palchetti. Non viene quindi più rispettata la convenzione della divisione sociale degli spettatori: nel nuovo teatro wagneriano tutti gli spettatori sono posti sullo stesso livello, senza distinzioni economiche o sociali.

La grande novità introdotta da Wagner fu l’oscuramento della sala. In questo modo il teatro perdeva la sua funzione prettamente sociale, e sottolinea invece l’importanza della rappresentazione.

La conduzione del Festival di Bayreuth è ancora oggi gestita dai membri della famiglia Wagner. Per quanto riguarda l’edizione del 2018 – che si svolgerà nel periodo compreso tra il 25 luglio e il 29 agosto – la programmazione prevede la messa in scena di alcune fra le più famose opere del compositore tedesco, come Lohengrin, Parsifal, Tristano e Isotta, I maestri cantori di Norimberga, L’Olandese volante, La Valchiria.

[…] Poi costruirò un teatro, e inviterò le persone a un grandioso festival drammatico: dopo un anno di preparazione dovrò, nel corso di quattro giorni, esibire il mio intero lavoro, con il quale permetterò alla gente della rivoluzione di riconoscere l’importanza di questa rivoluzione […]” (R.W.)

 

[Per la storia del Festival di Bayreuth: https://www.bayreuther-festspiele.de/
Per le informazioni sulla struttura del teatro: Alonge, Perrelli, “Storia del teatro e dello spettacolo”]