Between worlds – Romaeuropa Festival
“Il nuovo mondo si presenta a noi tra la globalizzazione – con la sua utopia di una comunità umana pensata soprattutto sugli scambi – e il suo opposto […]” (Monique Veaute, Presidente Fondazione Romaeuropa)
Ormai arrivato alla sua 33° edizione, il Romaeuropa Festival avrà luogo quest’anno tra il 19 settembre e il 25 novembre in vari teatri e luoghi all’aperto della capitale. In linea con la tendenza dei festival di questo 2018 anche il festival romano avrà come tema – e missione – l’incontro tra mondi diversi, apparentemente incapaci di comunicare, ma che possono essere uniti dalla cultura. E in particolare dallo spettacolo dal vivo.
Un obiettivo importante e gravoso quello che si prefigge il festival, un’operazione non scontata che cerca di dimostrare come il mondo stia tornando indietro invece di andare avanti. E questo processo viene raccontato partendo dai muri: così come la caduta del muro di Berlino aveva dato speranza – come afferma Monique Veaute, Presidente Fondazione Romaeuropa – così i nuovi muri che vengono costruiti ci fanno ricadere nell’ombra delle divisioni e dell’assenza di un progetto comune.
La difficoltà del progetto non sta fermando gli autori, e il festival di quest’anno si preannuncia di alto livello: compagnie e artisti provenienti da tutti i continenti e un programma pieno di novità per mostrare al pubblico che si recherà nella Città Eterna che la diversità c’è, esiste e va preservata, non temuta.
La strada che imboccherà il festival è in realtà già stata percorsa: la programmazione 2018 seguirà infatti le orme di uno dei più importanti e influenti uomini di teatro europei del secondo Novecento, Peter Brook.
Enfant prodige nella Londra di metà secolo, Peter Brook è riuscito a collaborare con i più grandi maestri dell’epoca, a mettere in scena spettacoli di ogni genere, e tutto in giovane età. La sua attività di riformatore inizia più tardi, con il trasferimento a Parigi e la riscoperta della sua “africanità”. In seguito a un viaggio in Africa compiuto tra il 1972 e il 1973 insieme agli attori della Royal Shakespeare Company (nata su influenza dello stesso Brook) egli è riuscito a sdoganare i pregiudizi teatrali che colpivano il continente africano, e a dimostrare che a differenza delle apparenza l’Africa è un luogo ricco di teatro, sebbene con modalità estranee al mondo occidentale. Con questo viaggio egli è riuscito a dimostrare che il luogo comune di un’Africa senza teatro era non solo falso, ma si basava sul pregiudizio culturale che riconosce come teatro solo quello che viene fatto in Europa. Brook non solo ha scoperto le forme della teatralità africana, ma le ha fatte sue e le ha riportate a casa con sé. Tornato a Parigi egli ha dedicato la sua vita artistica alla creazione di spettacoli intrisi della poetica teatrale africana, e ha fatto quindi dell’abbattimento delle barriere artistico-culturali il punto di partenza della sua arte.
Il Maestro – ormai più che novantenne – torna al REF e porta il suo ultimo spettacolo. The prisoner, con la regia di Brook e Marie-Hèlène Estienne, si presenta come uno spettacolo semplice, che racconta una storia apparentemente telegrafica ma che al contempo lascia spazio a importanti sviluppi. È la storia di una prigione in una regione desertica, e di un uomo che, dall’esterno, la osserva. Una storia che lascia aperti molti punti interrogativi, sulle identità e le storie dell’uomo e dei detenuti, che solo la visione dello spettacolo potrà sciogliere.
È anche uno spettacolo perfettamente in linea con la programmazione del REF, uno spettacolo che parla di muri apparentemente impossibili da attraversare, ma che forse le storie degli uomini sapranno scavalcare.
Il Romaeuropa è un festival che, anche per via della lunghezza della programmazione, ha la possibilità di metter in scena spettacoli diversi, per genere e forma, ma che siano in grado di avere un impatto. Guardando gli spettacoli in programmazione in questa edizione penso che l’impatto sarà forte. E non solo per la qualità degli spettacoli, ma per la storia che raccontano, per l’idea che sta alla base della scelta di questi spettacoli.
Parlare di muri oggi è a prima vista scontato, lo si fa quotidianamente sulle prime pagine dei giornali e in quasi tutti i programmi di attualità. Ma trasformare questa riflessione sui muri in un progetto culturale è qualcosa che non viene fatto spesso. E credo sia proprio questo il punto forte del REF: non solo trattare un tema, ma farlo diventare un atto di cultura, farlo diventare una riflessione che coinvolge l’arte e le arti, farlo diventare il motore di quasi due mesi di programmazione.
Nelle parole di Fabrizio Grifasi, Direttore Generale e Artistico della Fondazione Romaeuropa:
“Perché è sull’esasperazione delle differenze rappresentate in questo momento come insormontabili e quindi da rifiutare che si articola la visione apocalittica di un ritorno a una purezza immaginaria e perduta, eppure in aperta contraddizione con la frenesia degli iperscambi e dell’overload comunicativo, a cui opponiamo un percorso ragionato e sensibile, dove le contraddizioni sono una sfida, senza nascondersi le paure, i fallimenti e le fragilità che agitano il presente che viviamo, offrendo il nostro festival come ambito di ritrovo per chi rivendica leggerezza e pensiero nella sobrietà dei colori dell’autunno”