Col cuore in gola
Nato nel 1971 sull’onda dei movimenti originatisi a partire dal ’68, il Festival di Santarcangelo – originariamente Festival Internazionale del Teatro in Piazza – si afferma sin dalla prima edizione come un festival nuovo, fuori dalle righe e al passo coi tempi.
Le ideologie sessantottine spingono l’allora direttore artistico, Piero Patino, a creare un festival politicizzato, che mettesse insieme l’ideologia e il folklore, le grandi tematiche e i cittadini.
Da quel momento, quello che ogni anno si sviluppa a Santarcangelo, è un festival all’avanguardia, attento alle istanze nazionali e internazionali che riguardano le arti e il teatro: dalla nascita del Terzo Teatro di Eugenio Barba, alle teorizzazioni di Grotowski, fino al Living Theatre. E tutto sotto il segno di Artaud.
Il festival si trova a cavalcare l’onda dell’attualità e dell’avanguardia del secondo Novecento come mai nessuno era stato in grado di fare in Italia, e si ritrova anche nella posizione di rappresentare una grande opportunità di incontro tra persone, artisti e generazioni, che sul terreno del festival sono libere di manifestare la propria arte. Questa linea si riflette anche e soprattutto nei nomi degli artisti chiamati a partecipare la festival in questi anni.
“La paura – o la costante fuga dalla paura – è la condizione più pervasiva della contemporaneità” (Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino)
La 48° edizione del Festival di Santarcangelo è stata incentrata su questo tema: la paura. Sebbene non sia spesso citato, questo sentimento si sta facendo sempre più spazio nel nostro quotidiano: abbiamo paura di quello che sappiamo, di quello che non sappiamo e di quello che pensiamo; abbiamo paura di ciò che è lontano e di ciò che è vicino; abbiamo paura del diverso, ma a volte anche di ciò che è troppo simile. Al festival è stata trattata in particolare la dimensione politica della paura, o meglio, le ripercussioni sul piano politico inteso in senso lato che la nostra paura crea, il modo in cui essa modifica le nostre vite, il nostro modo di rapportarci con quanto ci sta intorno e con ciò con cui ci identifichiamo.
Gli spettacoli presentati in questa edizione del festival avevano proprio lo scopo di indagare la paura che è insita in tutti noi. Pur trattando il tema da prospettive e tramite espedienti diversi, tutti gli spettacoli presentati hanno a che fare con una specifica sfumatura di questo sentimento.
Dalla paura di genere, alla paura di ciò che è diverso, fino alla paura dei boschi di notte – idea forte del festival – tutto ciò è stato trattato all’interno di questa edizione, che ha voluto lasciare i partecipanti “col cuore in gola”.
Una performance in particolare penso abbia trattato il tema in maniera estremamente efficace.
Your word in my mouth, questo il titolo della performance firmata Anna Rispoli, Lotte Lindner&Till Steinbrenner.
Una performance che – grazie alle parole di persone vere – permette a chi partecipa di confrontarsi molto da vicino con le nostre più intime paure. Nove persone, nove interviste condotte lungo l’arco di diversi mesi in vari quartieri della città di Bruxelles. Nove persone che non si sono mai confrontate tra di loro, e che spesso non si sono nemmeno conosciute. Ma tutte guidate dalle abili mani della regista, Anna Rispoli. Il tema, o piuttosto il pretesto, è l’amore. I vari tipi di amore. Un dialogo impossibile che ha portato questi nove intervistati a mettersi a nudo e a mettere a nudo la loro personale concezione dell’amore inteso in ogni sua sfaccettatura. Ma l’amore in certi momenti lascia il posto a tanto altro: politica, integrazione, esperienze, disaccordi, religione, e tutto quanto possa ruotare intorno alla vita di questi nove individui. Non sono tuttavia costoro a narrarci le loro vicende. Siamo noi. Nove persone tra il pubblico, una volta preso posto, si trovano davanti un copione chiuso. Davanti a loro una targhetta con un nome: Jean-François, Ella, Philippe, Princesse, Ivo, Tahel, Ines e suo fratello, David. A questi il compito di seguire il copione e di leggere all’impronta le parole pronunciate nel corso delle interviste – spesso da solo a solo – con l’autrice. Un sapiente lavoro di montaggio permette di far dialogare fra loro queste persone che non si sono mai viste ma che hanno avuto la possibilità di scambiarsi domande e risposte attraverso la Rispoli. Un dialogo impossibile che diventa possibile nel momento stesso in cui viene letto da nove persone sedute intorno a un tavolo; ed è come se in questo modo i nove protagonisti originari – sebbene a distanza di centinaia di chilometri e di mesi – si potessero incontrare per la prima volta.
Ritengo che il merito di questa performance sia di dimostrare a quanti partecipano che forse la paura non è solo quella dei boschi di notte.
Forse la paura è anche quella di vedersi nei panni di uno sconosciuto, di capirlo e di diventarlo per un paio d’ore. Paura dell’empatia che può farci scoprire nuovi lati di noi stessi che non abbiamo mai visto – o che forse non abbiamo mai voluto vedere.
Penso però che il messaggio più forte dello spettacolo si sveli solo alla fine, quando a ogni lettore viene chiesto di pronunciare il proprio nome – quello vero – e in quel momento, dopo aver alzato gli occhi ed essersi guardati intorno un po’ imbarazzati, ci si trova insieme a tutti coloro che hanno preso parte alla performance; quando il primo istinto è quello di dire “quello non ero io, quello che ho letto non mi appartiene”, ma con la consapevolezza che in fondo, forse, un po’ quel personaggio lo si è stati.
Un’edizione 2018 che ha permesso ai partecipanti del festival di mettere a nudo sé stessi e di potersi confrontare con i propri fantasmi – reali o metaforici – in una cornice sempre pittoresca e poetica come quella del borgo di Santarcangelo. Due settimane di riflessione, di sfide e di risultati, che hanno permesso ad artisti e pubblico di guardarsi intorno e, forse, di avere un po’ meno paura.