En avant – garde!
“La più grande debolezza del pensiero contemporaneo mi sembra risiedere nella sopravvalutazione esagerata del conosciuto rispetto a ciò che rimane da conoscere” (André Breton)
Spesso quando si parla di avanguardia si pensa a un gruppo di pazzi con idee bizzarre, non interessati alle regole della società civile che lottano (spesso nel vero senso del termine) per affermare le loro strambe teorie.
Esiste, o almeno credo, la possibilità che dietro ci sia dell’altro.
Se parliamo di avanguardia a teatro il primo luogo a cui penso è senza dubbio la Francia del periodo tra fine ‘800 e inizio ‘900, patria di alcuni fra i più importanti avanguardisti Novecenteschi, da André Antoine e André Breton fino a Jacques Copeau e Charles Dullin.
Un risultato – a mio parere il più importante – a cui si è giunti grazie all’avvento delle avanguardie e che vale la pena citare è l’invenzione della regia.
La data simbolica della nascita della regia è il 1899, e colui che viene designato come inventore di questa immensa novità è il ginevrino Adolphe Appia.
In verità le cose sono un po’ più complesse: la regia non è stata inventata dall’oggi al domani con una dissertazione teorica, ma è il risultato di un lungo processo iniziato nel corso dell’800 con la Compagnia dei Meininger, portato avanti dal Teatro d’Arte di Stanislavskij e finalmente giunto a compimento – o pieno riconoscimento – con il lavoro di Appia.
Vero è che l’idea di un controllo di ciò che viene messo in scena è un concetto precedente, ma la figura del regista compie qui un salto avanti: il regista non è soltanto colui che regola le entrate, le uscite e le posizioni da tenere sul palcoscenico, ma una figura che ha il potere di dare un’interpretazione, di guidare gli attori nel modo in cui recitano, che insomma ha il compito di creare un’opera d’insieme, di cui egli controlla tutte le sfumature.
Avanguardia tuttavia non è soltanto questo: avanguardia significa anche nascita di pensieri, sviluppo di idee e tecniche che porteranno alla rifondazione del teatro su basi valide ancora oggi.
Si può citare tra queste la rivoluzione della scenografia – che da ora in poi sarà costruita e non dipinta – operata da André Antoine, oppure le concezioni dello stesso Appia che afferma l’importanza della musica e di un uso poetico della luce nella costruzione dello spettacolo.
Avanguardia, poi, è anche nascita di gruppi, come ad esempio il Dadaismo (1916) del ginevrino Tzara e il Surrealismo (1924) del francese André Breton.
Quest’ultimo è stato anche, almeno nella prima parte della sua esperienza con i surrealisti, un fautore del mezzo teatrale: il gruppo accoglieva infatti uomini di teatro del calibro di Artaud e Roger Vitrac, autore tra l’altro di uno dei primi spettacoli surrealisti, e forse il più importante.
Victor ou les enfants au pouvoir viene messo in scena per la prima volta il 24 dicembre 1929 alla Comédie des Champs-Elysées, con la regia di Artaud e gli attori della compagnia del Teatro Alfred Jarry. La storia narrata nella pièce è semplice quanto bizzarra: è il compleanno di Victor, bambino di 9 anni alto 1,90.
Durante la festa di compleanno, cui partecipano la famiglia di Victor e quella di un’amica del ragazzo, vengono alla luce retroscena imbarazzanti riguardanti relazioni extraconiugali che porteranno anche al suicidio di uno dei personaggi.
Il vero intento della pièce – in puro stile surrealista – è sferrare un attacco alla società borghese colpendola nei suoi punti nevralgici: famiglia, Stato e religione. Lo stesso Victor rappresenta nelle intenzioni di Vitrac un prodotto della borghesia: è una storpiatura che la società tutta tenta di nascondere sotto una parvenza di normalità.
Credo di poter affermare che l’Avanguardia non sia stata solo un movimento guidato da pazzi, ma un vero e proprio trampolino che ha portato a un’innovazione sentita e necessaria.
Nata in un periodo tutt’altro che facile per la storia dell’Europa, l’Avanguardia si è assunta il compito di trovare una risposta ai nuovi interrogativi e alle nuove problematiche che venivano pian piano ponendosi. Il fatto di trovarsi in un periodo particolare, caratterizzato da paure e incertezze non sperimentate prima ha spinto i gruppi d’avanguardia a ricercare nuovi metodi, nuovi percorsi per esprimere nuovi sentimenti e per combattere attraverso l’arte il nulla che vedevano nella società a loro contemporanea.
Certo, i risultati, spesso estremamente bizzarri e grotteschi, possono piacere o no. Credo tuttavia che per quanto riguarda questo movimento l’importante non sia tanto il risultato, quanto il processo.
Un processo che ha spinto gli artisti a voler rifondare l’arte, a volte affermandone l’inutilità, altre invece il potere salvifico; alle volte volendo distruggere o dimenticare quanto era stato fatto fino a quel momento, altre cercando di giungere all’ammodernamento del classicismo, altre ancora cercando di tornare all’età medievale.
Risposte giunte al momento giusto, che hanno portato non tanto alla nascita di un movimento unitario, ma al proliferare di esperienze che hanno rifondato il settore artistico portandolo a livelli nuovi, impensabili fino a vent’anni prima, ma necessari per interpretare una società europea sull’orlo dello sgretolamento e del collasso.