Alla fine di queste considerazioni – purtroppo non molto positive – sulle condizioni del teatro italiano, vorrei dire che, nonostante tutto, del buono nel nostro teatro c’è sempre stato.
I prossimi articoli parleranno del teatro italiano del secondo Novecento, in particolare della nascita di quello che a oggi è uno dei più importanti teatri italiani – il Piccolo Teatro di Milano – fondato ormai 71 anni fa, e di due importanti, per quanto non troppo conosciuti, artisti che con il loro passaggio su suolo italiano hanno contributo a modificare il panorama esistente.
Parlare delle debolezze del teatro nazionale al giorno d’oggi non vuol dire semplicemente sminuire ciò con cui abbiamo a che fare: penso, infatti, che la consapevolezza di quello che ci circonda sia fondamentale per riuscire a trovare una soluzione.
Poi, come diceva Silvio D’Amico, qualcuno sarà in grado di ricostruire partendo dalle macerie che oggi ci circondano. Mi auguro che ciò accada in fretta. Mi auguro che le nuove generazioni di teatranti, attori, studiosi e operatori riescano a trovare un’uscita dall’impasse che ormai da anni sta bloccando la crescita del teatro. Credo che una fra le cose più importanti ora sia ritornare a guardare al teatro non come a un’attività commerciale, ma come a un’arte.
Un’arte fatta di persone, di storia, di tradizione e d’innovazione. Un’arte che, proprio per il suo essere indipendente dal controllo da parte di macchine o della medialità, può non essere sempre perfetta, ma che sarà sempre sentita da chi la fa e – spero – da chi assiste. Credo inoltre che per liberarsi dalla crisi sia necessario un certo grado di innovazione in campo teatrale, ma credo altresì che quest’innovazione non debba diventare la scusa per arrivare all’espropriazione della forma teatrale, come a volte avviene.
Come ho sentito dire a Marco Baliani durante una recente conferenza, per portare avanti la tradizione è a volte necessario tradirla.
Ritengo tuttavia che questo tradimento non debba essere totale, ma pensato, calcolato. Deve insomma restare tradimento e non diventare trasfigurazione. Penso che il grado di innovazione di cui necessita il teatro dovrebbe essere più nell’ordine dei mezzi che esso impiega che nell’ordine dei contenuti. E allo stesso tempo credo sia fondamentale, a lato dell’innovazione, continuare a lottare affinché i classici restino il caposaldo non solo del medium teatrale, ma della società intera.
Anche se già fatta e già vista, una messa in scena di Antigone, Amleto o Madre Coraggio avrà sempre qualcosa da dire a chi è seduto in platea.
L’importanza dei classici sta proprio qui: nell’essere in grado, anche a secoli di distanza, di parlare alle persone della loro vita, della loro quotidianità, dei loro problemi.
Il teatro non può negare la tradizione anche per un altro fattore: il teatro è tradizione. Da secoli a questa parte il teatro è stato in grado di comunicare con le persone in un rapporto di compresenza estraneo a tutte le arti che sono nate successivamente. Certo, gli effetti speciali che vediamo realizzati nelle pellicole cinematografiche sono estremamente verosimili, ma – almeno a mio parere – non potranno mai competere con le visioni che sprigiona negli spettatori il racconto che si può ascoltare tra le pareti di un teatro.
Penso che un altro modo per risolvere la crisi del teatro sia andare incontro al pubblico. Ritengo che compito di chi fa teatro – a tutti i livelli – sia cercare di trasmettere la forza di questo mezzo espressivo che, sebbene non sia in grado di mettere sulla scena eclatanti effetti speciali, è comunque in grado – anche con pochi attori – di far vivere scene ed emozioni al suo pubblico.
Perché il teatro – a differenza del cinema o della televisione – è fatica, anche per il pubblico.
Gli spettatori non possono sedere comodamente in poltrona e aspettare la pubblicità. Devono impegnarsi, devono sentire la storia che viene loro narrata, devono partecipare e devono provare sulla loro pelle le emozioni e le paure che i personaggi stanno vivendo sulla scena. Gli spettatori devono investire sé stessi, nel tempo della rappresentazione, per infrangere ogni barriera e ogni scetticismo, per credere a quello che viene rappresentato e per inventare ciò che non è stato possibile portare materialmente sul palco. E penso sia questo ciò che rende speciale il teatro, il fatto di creare un legame forte tra chi è sul palco e chi in platea, il fatto di mettere in scena l’impossibile e – anche se solo per un paio d’ore – farlo diventare possibile.
Il fatto, ancora, di coinvolgere lo spettatore, di provocare in lui domande e – in alcuni casi – di farlo tornare a casa con delle risposte.
La grande forza del teatro è creare gruppi di persone, stimolarle e, nei limiti del possibile, farle cambiare.
Tutti cambiamo nel corso di uno spettacolo: ci lasciamo alle spalle le giornate negative così come quelle positive, ci immergiamo in un mondo che probabilmente non ci apparterrà mai, diamo la possibilità a una compagnia di attori di indagare le nostre paure e le nostre speranze più riposte e di portarle alla luce, togliamo freni e barriere e ci lasciamo trasportare da una storia che – per quanto lontana nel tempo e nello spazio – parla un po’ anche di noi.